IL PROBLEMA DELLA POSSIBILE INFLUENZA INDIANA SU ABU YAZID AL BISTAMI

A cura di Muhammad ʻAbdur Rabb, fu professore presso Institute of Islamic Studies, McGill University, Montreal, Canada, 1970

IL PROBLEMA DELLA POSSIBILE INFLUENZA INDIANA SU ABU YAZID AL BISTAMI

 

 

Passiamo ora alla controversa discussione dell’influenza Indiana sul pensiero di Abu Yazid.

Innanzitutto, è doveroso sapere che Abu Yazid frequentò un maestro Sufi Indiano noto come Abu ‘Ali al-Sindi, un saggio illetterato.

Gli studiosi hanno iniziato a discutere questa questione più di un secolo fa e ne stanno ancora discutendo. Quindi, una dissertazione su Abu Yazid senza una discussione su questo problema sarebbe incompleta.

1. Il contesto della polemica sul problema

 

Il teologo luterano Tholuck in un trattato in latino del 1821, dichiarò:

“Considerando che la moltitudine dei Magi rimasero soprattutto nel nord della Persia, ed essendo a conoscenza che molti dei più eminenti dottori Sufi nacquero nella provincia settentrionale del Khorasan; constatando che ci sia stata anticamente una comune famiglia linguistica dall’India alla Persia, nonché basandosi sui racconti del poeta e storico greco-bizantino Agazia secondo cui una parte della dottrina Indiana era condivisa in Persia; sono giunto alla conclusione che il Sufismo sia stato ideato al tempo del Califfo al-Ma’mun dai Magi sopravvissuti in Khorasan, i quali erano intrisi di misticismo Indiano. Quest’opinione è sostenuta ulteriormente dal fatto che, come abbiamo spesso letto, i fondatori delle sette erano discendenti delle famiglie dei Magi o, perlomeno, conoscevano i Magi (sulla base di quest’affermazione, possiamo dire che, dal punto di vista del teologo polacco Tholuck, Abu Yazid è stato influenzato dal pensiero Indiano perché era del Khorasan, visse al tempo del Califfo al-Mamun, era il nipote di un Mago e viveva nel quartiere delle famiglie dei Magi.)”

Tholuck, in seguito, abbandonò questa teoria per mancanza di prove, ma la consuetudine di ritenere l’influenza Indiana sul Sufismo continuò. La maggior parte dei più importanti studiosi di Sufismo del diciannovesimo secolo, ad esempio il tedesco Alfred von Kremer, l’olandese Dozy e l’ungherese Goldziher credevano che in qualche modo il pensiero Indiano avesse influito sullo sviluppo del Sufismo.

Il già citato Alfred von Kremer sostenne: “…È molto più naturale credere che il misticismo sia venuto dalla Persia, ma esisteva realmente in quel paese già prima della conquista Musulmana, grazie anche all’influenza Indiana.”

Il dibattito su questo problema è emerso nel ventesimo secolo, ma adesso ci occuperemo solo dell’influenza Indiana su Abu Yazid.

Nel 1906, Nicholson, nel suo articolo “Un’inchiesta storica riguardante l’origine e lo sviluppo del Sufismo”, dichiarò che Abu Yazid fu probabilmente influenzato dal pensiero Buddhista. In seguito, modificò le sue opinioni. Tuttavia, nel 1916, nel testo “The Mystics of Islam” si dichiarò nuovamente convinto dell’influenza Buddhista.

Circa sei anni dopo, Massignon studiò il lessico fondamentale dello Yoga classico di Patanjali e del Sufismo, e concluse che alcuni di questi termini, per esempio nafs e atman, qalb e manus, hanno significati equivalenti. Allo stesso tempo, ha scoperto che il termine Sufi di Fana’ non ha un equivalente nei testi di Patanjali. Inoltre, ha sottolineato che il termine shath, secondo lui, è uno stato positivo di dialogo tra l’uomo e il soprannaturale, è la caratteristica più caratteristica del Sufismo. Ma il fenomeno della shath non esiste in Patanjali perché non ha la concezione di un Dio personale.

Tuttavia, Massignon sosteneva che non ci fossero prove di una qualsiasi influenza Indiana sul Sufismo in generale, e su Abu Yazid in particolare. Concluse che “il misticismo Islamico” in origine e nella sua fase di sviluppo, procedeva dalla recitazione costante del Corano, meditato e praticato dai Musulmani, ma dovremmo menzionare che Massignon non escludeva la possibilità di un’influenza ascetica Induista sugli ordini Sufi dei tempi moderni. Secondo lui, “è probabile che qualche allievo critico delle moderne congregazioni [tariqat] abbia infiltrato certi metodi di ascetismo Indù. Dopo Massignon, Max Horten, professore di cultura orientale presso l’Università di Bonn, nel primo dei suoi due lavori pubblicati nel 1927, si impegnò di dimostrare che c’era un’influenza Indiana su Abu Yazid, al-Hallaj e al-Junayd.

A causa dei suoi metodi argomentativi e per la natura categorica delle sue conclusioni, non prenderemo molto sul serio Horten. La possibilità dell’influenza Indiana su Abu Yazid fu poi ripresa da due studiosi viventi del nostro tempo: Zaehner e Arberry. Nella sua “Rivelazione e ragione nell’Islam”, Arberry, nel 1957, ha cercato di confutare le opinioni del suo insegnante, Nicholson, circa questo problema. Da quel momento, i due professori Britannici si sono confrontati su questo problema. Zaehner è un entusiasta sostenitore della teoria dell’influenza Indiana su Abu Yazid, proposta da Nicholson e Horten. Ha anche presentato la sua posizione nel 1957. Due anni dopo ha approfondito la sua posizione sul misticismo Indù e Musulmano.

Poi venne di nuovo Arberry. Nella sua “Bistamiana”, nel 1962, ha cercato di confutare la tesi di Zaehner punto per punto. Le opinioni di Arberry hanno trovato ulteriore supporto nel lavoro di Qasim al-Samarra’i, professore di studi Arabi e Islamici presso l’università di Leiden, Olanda.

In breve, esiste tutto un dibattito sul problema della possibile influenza Indiana su Abu Yazid.

Esamineremo adesso una per una le principali questioni su cui si fonda l’argomento controverso della possibile influenza Indiana.

2. Una discussione sui principali problemi della polemica

Adesso, compariamo la dottrina del Fana’ di Abu Yazid e la dottrina Buddhista del Nirvana.

Secondo Nicholson, “il metodo del Sufismo, essendo un’auto-cultura etica, una meditazione ascetica e un’astrazione intellettuale, deve molto al Buddhismo”. A mo’ di esempio, egli fa riferimento alla dottrina del Fana’ di Abu Yazid, che “è senz’altro, penso, di origine Indiana.” Nicholson conclude che sebbene le implicazioni del concetto di Fana’ e quelle del concetto Buddhista di Nirvana differiscano molto, “i termini coincidono così strettamente, che sotto certi aspetti, non possiamo considerarli del tutto estranei”.

Horten divide lo sviluppo della vita mistica di Abu Yazid in tre periodi e trova un aspetto del pensiero Indiano corrispondente a ciascuno di questi periodi. Il primo periodo che, secondo Horten, si estende dal 236/850 al 246/860, è il periodo del negativismo.

In questo periodo, Abu Yazid disse: “Sono asceso al campo (maydan) del nulla (laysiyyah). Poi ho continuato a volare in esso per dieci anni finché non sono passato dal nulla in nulla attraverso il nulla”. Questo è lo stadio della sua coscienza del vuoto, del nulla.

Poiché, in questa fase, Abu Yazid non aveva coscienza del Brahman1, questa era la sua esperienza del Nirvana Buddhista.

Nel secondo periodo (dopo il 246/860), Abu Yazid, secondo Horten, passò dallo stadio del negativismo a quello del positivismo. Abu Yazid disse: “Poi sono asceso per smarrire (tadyi) ciò che è la sfera del tawhid”. Abu Yazid era ora consapevole della sostanza, il Brahman, alla base del fenomeno. Questo periodo, quindi, rappresenta un passaggio dal Nirvana Buddhista al positivismo del Brahmanesimo. Nel terzo periodo (intorno al 256/870) Abu Yazid, affermò Horten, sperimentò un’identificazione dell’ego fenomenico con l’Io eterno. Quest’identificazione si è espressa nel suo messaggio rivolto a Dio: “Adorami con la tua unicità (wahdaniyyah), vestimi con la tua ipseità2 (amore di sé) ed elevami alla Tua unità (ahadiyyah) in modo che quando le tue creature mi vedranno, possano dire: “Ti abbiamo visto”, e Tu sarai quello, e io non sarò lì.”

A questo punto, Abu Yazid aveva superato i limiti dell’esistenza fenomenale e divenne l’Io di Dio. Quindi, poteva dire: “Gloria a me! Quanto è grande la mia maestà!” In quest’espressione, secondo Horten, vi è la dottrina Indiana dell’Atman3. La ripartizione che ipotizza Horten circa lo sviluppo della vita mistica di Abu Yazid in tre periodi di tempo diversi basandosi su testi riguardanti il mi’raj di Abu Yazid, fa dubitare che Horten comprendesse la vera natura del Sufismo. Ovviamente, quando Abu Yazid affermò di aver volato nella sfera del nulla per dieci anni, non si riferiva ai dieci anni calendariali.

Le opinioni di Nicholson e di Horten secondo cui il Nirvana abbia solo implicazioni negative non sono più considerate corrette. Gli studiosi moderni hanno dimostrato che ha anche un aspetto positivo. Secondo Edward Conze4, già professore presso l’Istituto per l’estremo oriente e la Russia di Washington e vicepresidente della Società Buddhista, ad esempio, il Nirvana è “impensabile” o “inconcepibile”; “non c’è niente al mondo neanche lontanamente simile” e il “ragionamento (tarka) non può concepirlo…. Tutte le concezioni che si hanno del Nirvana sono sbagliate, Quindi, non è possibile dire che cosa sia il Nirvana. Ma “se non si può dire che cosa sia una cosa, ciò non la rende un nulla se la colpa non risiede nella cosa, ma nelle parole.” Il Nirvana può essere solo assaggiato;” ognuno deve sperimentarlo personalmente…

La teosofa Beatrice Lane Suzuki, mostra che sebbene negli Hinayana Sutra5 il Nirvana significhi uno “stato di completa estinzione in cui non c’è più né avidità, né rabbia, né follia, né tutti gli altri desideri malvagi e passioni”, nei Sutra Mahayana acquista un significato positivo; non è più uno stato negativo ma qualcosa che esiste da solo, è la Realtà, da cui tutti i Buddha emanano. Nel Mahayana Nirvana Sutra (Fas. VI) leggiamo: “Non è assolutamente giusto, è inadeguato dichiarare che l’entrata del Tathagata (il corpo spirituale del Buddha) nel Nirvana assomigli a un fuoco che si spegne quando il carburante è esaurito. È assolutamente giusto affermare che il Tathagata entra nella natura del Dharma6 stesso.”

Suzuki ci dice inoltre che secondo i Mahayanisti, l’Arhat (la santità), avendo ottenuto l’emancipazione individuale, deve provare compassione per le creature; egli deve diventare il Bodhisattva7, anche per la sua salvezza, perché se è dotato della natura di Buddha non può sedersi serenamente, da solo, in cima alla collina dell’illuminazione e guardare dall’alto in basso le moltitudini delle tribolazioni.” Deve tornare nel mondo per aiutare le persone a raggiungere l’emancipazione come fece lo stesso Buddha.

Così scopriamo che sia il Nirvana che il Fana’ hanno implicazioni sia negative che positive, e che sia i Mahayanisti sia i Sufi affermano che l’uomo, dopo aver raggiunto l’obiettivo supremo, deve tornare al mondo per guidare i suoi simili. Si osservi, tuttavia, che queste somiglianze sono solo superficiali e, pertanto, gli esegeti dell’influenza Indiana sul Sufismo non dovrebbero ipotizzare che il Nirvana e il Fana’ abbiano significati identici. Nel suo aspetto negativo, il Fana’ implica l’annullamento della coscienza di qualsiasi altro tranne del Dio del mondo, l’annullamento dell’al di là, l’annullamento dei doni di Dio e persino l’annullamento dei nomi e degli attributi di Dio; invece, il Nirvana non può che riferirsi all’annientamento della coscienza, ma non del mondo. Disse Hermann Hesse nel Siddharta: “sulla natura precisa del Nirvana, Buddha si astenne sempre abilmente da eccessive precisazioni.”

Il Buddhismo non ha delle idee su Dio, e quindi sulla Sua ricompensa, punizione, ecc… Nel suo aspetto positivo, il Fana’ significa baqa’ (permanenza, sussistenza) in Dio. Ovviamente, il Nirvana del Buddhismo ateo non racchiude un elemento positivo in questo senso. Per quanto riguarda la nozione di ritorno a questo mondo, dovremmo prima chiarire un punto. A rigor di termini, l’idea di un ritorno al mondo non è sottintesa nel concetto di Fana’. Il Fana’ si riferisce a un viaggio verso l’alto dalle creature a Dio, mentre il ritorno, che al-Junayd chiama sahw (il ritorno alle percezioni, alla sobrietà, alla moderazione nel soddisfacimento degli appetiti e delle esigenze naturali), si riferisce a un viaggio verso il basso da Dio alle creature. Avendo chiarito questo punto, diremmo che la concezione Sufi di un ritorno ha distinte implicazioni. Ad esempio, è Dio che restituisce il Sufi alle Sue creature in modo che possa guidare i suoi simili nel loro viaggio verso di Lui. Inoltre, nel Sufismo, si distingue tra le funzioni di un Sufi (Wali) dopo il suo ritorno e quelle di un Profeta (Nabi). Ad esempio, l’obbedienza ad un Profeta è obbligatoria per l’uomo, mentre l’obbedienza a un Sufi non lo è. Va da sé che il Nirvana non ha tali implicazioni.

ii) L’uso che Abu Yazid fa delle parole Shajarah (Albero) e Khud’ah (Inganno) e la Comparsa delle Parole Asvattha (Fico Sacro) e Maya (illusione, inganno) nel Pensiero Indiano

Narrando la sua esperienza del mi’raj, Abu Yazid disse, “… Ho raggiunto la distesa dell’eternità e in essa ho visto l’albero dell’unicità.” Secondo al-Abu Nasr al-Sarraj, Abu Yazid “descrisse il terreno [nel quale cresceva] la sua radice e il suo ramo, i suoi germogli e i suoi frutti, e poi disse: Ho guardato, e sapevo che tutto questo era un inganno.”

Zaehner riprende da questo testo due parole, “albero” e “inganno”, e cerca di dimostrare che Abu Yazid le ha prese in prestito dai sistemi Indiani, i quali hanno dei termini esattamente corrispondenti. Per quanto riguarda “l’albero”, pensa che sia l’albero della Katha Upanishad e della Bhagavad Gita. Sebbene al-Sarraj non dica come Abu Yazid abbia descritto il terreno da cui crebbero l’albero, le sue radici, i suoi rami, i suoi germogli e i suoi frutti, possiamo essere abbastanza certi, afferma Zaehner, che Abu Yazid li abbia descritti similmente ai passi della Bhagavad Gita che riportiamo di seguito:

“Krishna disse: Si dice che c’è un albero eterno (Ashvattha) le cui radici sono in alto e i rami verso il basso, le cui foglie sono canzoni sacre (le foglie sono i chakra e le canzoni sacre sono i bija mantra e i bija akshar), e colui che le conosce, conosce i Veda.”

“I rami di tale albero si estendono sia verso l’alto che verso il basso, si sviluppa tramite le tre guna8 e i suoi germogli sono i vari sensi [organi di senso, mente, ecc.]; le sue radici si diffondono anche verso il basso dando così origine alle azioni nel mondo degli umani.” (Bhagavad Gita, 15:1-2)

Per Zaehner, questa è una somiglianza sorprendente. Aggiunge, inoltre, che lo stesso albero appare anche nella Mundaka e nella Svetasvatara Upanishad.

Riguardo alla parola “inganno”, Zaehner pensa che sia la traduzione Sanscrita di “maya”. Infatti, egli afferma che “le due parole non potrebbero che corrispondere più esattamente.” A sostegno di ciò, cita i significati di khud’ah (inganno, astuzia, stratagemma) e di maya riportati rispettivamente nei dizionari Arabo-Inglese di Lane e Sanscrito-Inglese di Monier Williams. Sottolinea inoltre che, per quanto ne sa, “il mondo non è descritto come khud’ah in nessun altro testo Sufi … Quando i Sufi parlano dell’irrealtà del mondo, ne parlano come un sogno o un gioco, non come un inganno.”

In risposta alle argomentazioni di Zaehner sull’albero, Arberry afferma che “sembra esserci almeno qualche motivo per supporre che [l’albero] sia piuttosto il famoso Albero della Vita così familiare alla letteratura Ebraica e Musulmana.” In un contesto Musulmano, questo potrebbe essere l’albero paradisiaco, il “Loto del Limite” (Sidrat al-Muntaha), il punto più lontano raggiunto da Muhammad durante il mi’raj. I commentatori del versetto coranico 53:14 in cui ricorre l’albero del Loto parlano di radice, rami, germogli, ecc…

Riguardo alla parola khud’ah, Arberry sottolinea che non si trova nel Corano esattamente in questa forma, ma Dio è descritto nel Corano come khaadi’ (ingannevole, frudolento; derivato dalla stessa radice kh d’), e maakir significa che Egli è “un maestro d’inganno e di astuzia nei suoi rapporti con gli uomini … Fa parte del suo piano per ‘provare’ e ‘testare’ le sue creature, e per dimostrare la vera qualità della loro fede e adorazione; il termine balaa’ si verifica abbastanza frequentemente sia nella letteratura Coranica che in quella Sufi.”

Naturalmente, un Musulmano non prende in prestito dalla Gita la parola khud’ah. Per quanto riguarda l’osservazione di Zaehner, secondo cui il mondo non è descritto come khud’ah in nessun altro testo Sufi, Arberry sottolinea che il celebre Sufi al-Junayd assegna la qualità di khud’ah a Dio e stabilisce che il divino khud’ah appartiene alla ‘legge’ di balaa’ (prova spirituale, tribolazione). Al-Junayd parla anche del makr di Dio (astuzia Divina o trappola). Ironicamente, Zaehner stesso ha tradotto nell’appendice del suo libro i passaggi in cui al-Junayd parla di khud’ah e makr. Arberry indica, inoltre, che anche se supponiamo che nessuno tranne Abu Yazid abbia definito “il mondo come un khud’”, si può in ogni caso citare un verso attribuito a ‘Umar Khaiyam in cui l’universo è descritto come “un sonno e un sogno, un inganno e una delusione.” In base a ciò, Arberry conclude che la frase di Abu Yazid “e io sapevo che tutto questo era un inganno” … è perfettamente chiara e naturale considerata l’estensione mistica dell’immagine Coranica di Dio in qualità di supremo ingannatore.

Per quanto ci riguarda, le argomentazioni di Arberry sull’uso che Abu Yazid fa della parola “albero” sono corrette. A sostegno delle sue argomentazioni, possiamo aggiungere che in un racconto dell’ascensione (mi’raj) di Abu Yazid, il famoso Loto del Limite del Corano è visto positivamente. In questo racconto disse:

“Ho cavalcato sul monte della sincerità (sidq) finché non ho raggiunto l’aria; poi ho guidato sul monte della bramosia (shawq) finché ho raggiunto il cielo; poi cavalcavo sul monte dell’amore finché non raggiunsi il Loto del Limite (sidrat al-muntaha). Poi sono stato chiamato, “Oh Abu Yazid! Cosa vuoi?” Ho detto: “Voglio non voglio.”

Sembra più verosimile, però, che l’albero nella prova di Abu Yazid si riferisca all’albero del famoso versetto di Luce del Corano, il quale recita:

“Dio è la Luce dei cieli e della terra, e si rassomiglia la Sua Luce a una Nicchia, in cui è una Lampada, e la Lampada è in un Cristallo, e il cristallo è come una stella lucente, e arde la Lampada dell’olio di un albero benedetto (shajarah), un Olivo né orientale né occidentale, il cui olio per poco non brilla anche se non lo tocchi fuoco. È Luce su Luce; e Iddio guida alla Sua Luce chi Egli vuole, e Dio narra parabole agli uomini, e Dio è su tutte le cose sapiente.” (Corano, 24:35; anche 2:35, 7.19, 7: 20, 7: 22, 14:24)

Scopriamo che la parola ‘shajarah’ (albero) appare in questo verso esattamente nella stessa forma in cui appare nel detto di Abu Yazid. Inoltre, il versetto della Luce descrive ‘shajarah’ come ciò che non è né dell’oriente né dell’occidente, ed è la fonte della luce dei cieli e della terra. È molto probabile, quindi, che Abu Yazid avesse in mente questo “albero” quando parlò dell’albero dell’unicità. Possiamo aggiungere qui che il verso della luce, essendo gravido di significati mistici, è sempre stato fonte d’ispirazione per i Sufi.

Per quanto riguarda l’uso che Abu Yazid fa di khud’ah, le argomentazioni di Arberry secondo cui il Dio descritto nel Corano come khaadi’ e maakir, ‘provi’ e ‘tenti’ i credenti, e che l’idea di balaa’ ricorra anche nella letteratura Sufi, sono corrette. A sostegno del punto di vista di Arberry, inoltre, possiamo sottolineare che Abu Yazid stesso ha parlato delle prove di Dio in molte circostanze. In un’occasione, per esempio, consigliò a uno dei suoi compagni alla vigilia di un viaggio quanto segue: “… Se una qualsiasi balaa’ (prova spirituale) di Dio cade su di te, cerca di venirne fuori in fretta perché è qualcosa che persino un uomo paziente non può sopportare.” Ciò significa che si dovrebbe superare la prova rapidamente per raccoglierne i suoi frutti.

Nel Libro della Luce troviamo l’uso che Abu Yazid fa di imtihaan (esame, prova) e di khud’ah:

“Mi misero alla prova (imtihaan) col dono dei favori mondani. Distolsi lo sguardo da essi. In seguito, mi offrirono i doni ultramondani verso cui avevo una inclinazione; ma Dio mi fece capire che quelli erano inganni (khud’ah), pertanto distolsi lo sguardo. Quando Dio vide che non m’ingannavo su quei doni perché provenivano dall’esistenza terrena (kawniyya), solo allora mi gratificò dei suoi favori.” (Paragrafo 382, pag. 286)

E ancora nel Libro della Luce Abu Yazid disse:

“Il servo viene nutrito di dolcezza, e [proprio] dal piacere di tale dolcezza viene impedito [nel conoscere] le Verità della Vicinanza.” (Paragrafo 143, pag. 173)

“Perché il Suo servo possa gustare la dolcezza, Dio gli invia la gloria, con la quale però gli sottrae qualcosa dalle verità della vicinanza (qurb).” (Paragrafo 455, pag. 322)

Ci sembra, tuttavia, che sia Arberry che Zaehner non abbiano compreso le reali implicazioni della parola khud’ah negli insegnamenti di Abu Yazid. Entrambi, iniziano con l’assunto che maya e khud’ah abbiano significati identici. In realtà, maya si riferisce al mondo materiale in cui viviamo, ci muoviamo e abbiamo la nostra esistenza, mentre khud’ah nelle declamazioni di Abu Yazid si riferisce al mondo angelico (malakut) che include la Tavola Custodita (al-Lawh al-Mahfuz: Paragrafo 150, pag. 176, Paragrafo 344, pag. 271), il Trono (Arsh) o la Sedia (Kursi), ecc…

Per quanto riguarda la Tavola Custodita (al-Lawh al-Mahfuz) Abu Yazid disse: “Sono io la Tavola Custodita (al-Lawh al-Mahfuz)” e ancora: “Sono io tutta la tavola Custodita (al-Lawh al-Mahfuz)”

Ciò è chiaro dal contesto stesso in cui Abu Yazid ha utilizzato la parola khud’ah, cioè, il contesto del suo viaggio spirituale (mi’raj) nel mondo angelico. Ciò è anche mostrato dal tema ripetuto nella versione (o nell’interpretazione) della sua storia del mi’raj durante la Ru’yaa’, la visione estatica: “Poi continuò ad offrirmi un regno che nessuna lingua può descrivere, finché seppi che egli mi stava mettendo alla prova, e in ossequio alla santità del mio Signore, non prestai attenzione ad esso, dicendo: O mio Caro, il mio desiderio è diverso da ciò che mi offri.” (Libro della Luce, Cap. IV, pag. 62) Questo tema ricorre sette volte durante la Ru’yaa’, la visione estatica, riferendosi ogni volta ai doni offerti da Dio ad Abu Yazid in un cielo particolare.” (Libro della Luce, Cap. IV, pag. 62-71; Libro della Luce, paragrafo 86, pag. 142; paragrafo 349, pag. 272; paragrafo 419, pag. 307-309).

Possiamo dire, inoltre, che Abu Yazid si sia ingannato da solo attraverso l’esperienza del khud’ah, e non è stato Dio ad ingannarlo. Quando nel suo viaggio spirituale vedeva cose diverse, le vedeva separate da Dio; cioè, non ha visto in quelle cose degli aspetti di Dio. Perciò, Abu Yazid fu responsabile del suo stesso inganno. Questa nostra visione è supportata dal Corano che si riferisce a Dio come khaadi’ e makir solo per quegli uomini che furono essi stessi khaadi’ e maakir, cioè ingannatori e astuti. Il Corano dichiara: “Certo gli ipocriti cercano di ingannare (yukhaadi’un) Dio, mentre è Dio che li sta ingannando.” (Corano, 4: 142). E ancora: “E gli altri (i miscredenti) ingannarono (makaruu) (Dio), e Dio ingannò (loro).” (Corano, 3: 54) Questi versetti e molti altri ancora, mostrano che Dio inganna i miscredenti e gli ipocriti che per primi hanno tentato d’ingannarLo. Certamente questo senso della parola non può essere applicato ad Abu Yazid; perché non era né un ipocrita e né un miscredente che ingannava Dio. Se prendiamo il termine khud’ah nel senso in cui l’abbiamo appena spiegato, la tradizione di Abu Yazid sopra citata significherà che considerava i doni di Dio relativi all’altra vita come veramente divini; ecco perché si sentì verso di essi incline. Ma subito Dio lo avvertì che si era ingannato da solo. Dopo aver capito il suo errore, Abu Yazid distolse la sua attenzione da quei doni.

Inoltre, dovremmo notare che bala’ e khud’ah non significano la stessa cosa. Bala’ è un favore che Dio conferisce ai suoi adoratori al fine di purificarli. Assomiglia alla punizione educativa che un padre infligge a suo figlio. A titolo di esempio, possiamo riferirci alla storia Coranica del sacrificio del figlio di Abramo, Ismaele. Secondo l’ordine di Dio, Abramo si preparò a sacrificare suo figlio. Quando la macellazione doveva avere luogo, Dio sostituì Ismaele con un animale sacrificale (dhibh). Dio non stava ingannando Abramo; evidentemente era una prova (balaa’) per il suo sviluppo spirituale. Abramo superò la prova e fu ricompensato da Dio.”

La parola bali’ è usata nello stesso senso anche in altri versetti Coranici (Corano, 2:49; 7:141; 8:17).

Quindi, poiché la bala’ viene da Dio per il bene di colui sul quale è imposta, i Sufi la cercano e la accolgono. Ad esempio, si dice che Abu Yazid desiderava ricevere la bala’, la prova Divina, ogni volta che si cibava.

“Dio mio, oggi mi hai mandato il mio pane quotidiano, ma non la mia pena quotidiana, in modo che la potessi usare come intingolo”. (Libro della Luce, paragrafo 15, pag. 97)

Khud’ah, d’altra parte, ha implicazioni molto diverse. Dio, come abbiamo visto, inganna solo per rappresaglia. Certamente un Sufi non si augura questo tipo di khud’ah.

La suddetta discussione mostra che l’ipotesi di Zaehner e di Arberry secondo cui maya e khud’ah abbiano un significato identico è scorretta. Sebbene Arberry abbia ragione nel dire che il Dio del Corano, inganni, tenti e metta alla prova, è forse errato affermare che per Abu Yazid la khud’ah fosse un inganno di Dio nei suoi confronti. In ogni caso, anche se l’inganno fosse provenuto da Dio o dallo stesso Abu Yazid, resta il fatto che gli oggetti che ingannarono Abu Yazid appartenevano al mondo ultraterreno ed erano molto diversi da quelli a cui si riferisce la maya. Quindi, è privo di senso un parallelismo tra maya e khud’ah.

iii) L’espressione paradossale di Abu Yazid Subhaanii (la gloria sia su di me) e Mahyam eva Namo Namah (Omaggio, omaggio a me) dell’Upanishad

Zaehner pensa che la famosa frase di Abu Yazid “la gloria sia su di me!” avesse un’origine Induista. Sostiene che subhaanii sia assolutamente blasfema per le orecchie Musulmane, e nulla di lontanamente paragonabile è registrato da qualsiasi Sufi che precedette Abu Yazid, e che un suo equivalente Sanscrito si troverebbe nell’esclamazioni estatica “mahyam eva namo namah”, che significa “Omaggio, omaggio a me!”, contenuta nel Brahatsannyasa Upanishad.

Arberry non confuta la visione di Zaehner; poiché, secondo lui, Massignon ha dimostrato in modo convincente che subhaanii rappresenta il tentativo di Abu Yazid di sperimentare in prima persona ciò che Muhammad aveva pronunciato distintamente nel versetto Coranico in modo indiretto e in seconda persona identificandosi con l’Io di ana rabbukum al-a’la, cioè, “Il vostro Signore Supremo, sono io!” (Corano, 79:24), che erano le parole del Faraone. Secondo Arberry, il tentativo di trovare una fonte Indù per questa celebrata shath sembra così improbabile da non richiedere ulteriori discussioni.

Arberry, tuttavia, segnala due errori di Zaehner. Zaehner sostiene che è molto probabile che Abu Yazid non sia mai andato oltre a dire subhaanii, ciò è verbalizzato nei documenti di Sarraj, mentre Sahlaji riporta non meno di tre versioni di questo particolare logion (in greco detto non registrato), ed è quindi probabile che la seconda frase che si riferisce al Corano 79:24 è in ogni caso una glossa, un’annotazione. Ci sono altre locuzioni teopatiche come “Quanto è grande la mia gloria”, “Quanto è grande la mia sovranità (sultaanii)” e, l’ultima e la più sorprendente, “Io sono il Signore Altissimo”, è segnalata come un’espressione estatica separata.

Quest’argomento, dice Arberry, “è in qualche modo invalidato dal fatto che Abu Talib al-Makki, che morì solo otto anni dopo al-Sarraj, cita la suddetta locuzione estatica nella sua forma completa (Qut al-qulub, II, 75)”. In secondo luogo, Arberry sottolinea che la traduzione corretta di “ana rabbi al-‘ala” è “Io sono il mio Signore, l’Altissimo” e non “Io sono il Signore, il più Giusto” come ha fatto Zaehner, quindi, c’è una differenza significativa tra queste due traduzioni. A causa della sua traduzione errata, Zaehner, “non ha afferrato il sottile significato del cambiamento operato da Abu Yazid a partire dal Coranico “Tuo Signore” a “Mio Signore”.

Le critiche di Arberry a Zaehner sono giustificate; ma, come possiamo spiegare questi errori da parte di Zaehner? Zaehner sembra ossessionato dall’idea che il primo Sufismo, e in particolare il Sufismo di Abu Yazid, sia stato mutuato da fonti Indiane. Quindi, sembra che scelga solo il materiale adatto alla sua preconcetta visione e delle traduzioni errate di testi per adattarli ai suoi argomenti. Ad esempio, come si spiegherebbe la sua traduzione di rabbi in “il Signore”: infatti, siamo sicuri che Zaehner non conoscesse che in Arabo il caso possessivo è pronunciato ya?

Siamo d’accordo con Massignon (e con Arberry che ha le stesse posizioni di Massignon) che subhaanii era una semplice contrazione delle espressioni Coraniche (subhaan rabbi al-‘azim e subhaan rabbi al-a’la usate dai Musulmani durante la preghiera). La parola subhaan si trova nel Corano quarantuno volte in tre forme: diciotto volte seguita dalla parola “Allah” o “rabb” o dal pronome relativo “alladhi” (che) si riferisce a Dio, nove volte nella forma di subhaanaka e quattordici volte nella forma di subhaanahu. Nello stato di estasi, Abu Yazid ha trasformato una di queste espressioni in subhaanii (questa mutazione avvenne spontaneamente; Abu Yazid non era consapevole del suo stato di ebbrezza). Era il modo peculiare in cui Bistami si esprimeva durante l’esperienza mistica. Le seguenti espressioni mistiche (shatahat) di Abu Yazid e dei corrispondenti versetti Coranici da cui sono state formate illustreranno ulteriormente il nostro punto di vista:

Shatatat Versetti Coranici
“Ana rabbi al-a’ la.” (Io sono il mio

Signore Supremo) (Libro della Luce di

Muhammad ibn ‘Ali al-Sahlaji, Paragrafo 87 e 284)

“Ana rabbukum al-ala.” (“Il vostro Signore

Supremo, son io!” Corano, 79:24) Questa corrispondenza è già stata dimostrata da

Massignon in “Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane.

2nd edition. Paris: J. Vrin, 1954, p. 279”

(Un uomo venne da Abu Yazid e gli recitò il seguente versetto: “In verità, la violenza del Signore è tremenda; “Inna batsha rabbika la-shadid.” Abu Yazid

disse: “Giuro sulla Sua vita che la mia violenza è più forte della Sua; “Inna

batshi ashaddu min batshihi.” Libro della Luce di Muhammad ibn ‘Ali al-Sahlaji, paragrafo 326, pag. 265)

“Inna batsha rabbika la-shadid.” (In verità, la violenza del Signore è tremenda”, Corano,

85:12)

“Inni ana la ilaha illa ana; fa a’buduni”

(“Non c’è Dio tranne Me! Ecco, ora adorateMi!” Paragrafo 401, pag. 296) (Libro della Luce di Muhammad ibn ‘Ali al-Sahlaji)

“… Annahu la ilaha illa ana fa a’buduni” (Non v’è altro dio Che Me: adorateMi (Corano,

21:25)

Dobbiamo notare che non tutte le shatahat corrispondono alle forme dei versetti del

Corano. Molte shatahat si trovano in una paradossale relazione rispetto al significato di

certi versetti Coranici, o sono in una relazione

paradossale nei confronti del significato e della

forma di certe Tradizioni profetiche. In ogni caso, esse contraddicono sempre ciò che è

generalmente ritenuto vero dai Musulmani, ed è per questo che sono dei paradossi.

Abu Yazid è molto famoso per il suo subhaanii. La menzione stessa del suo nome richiama alla mente questa sua famosa espressione. Ma perché questo subhaanii è così importante? Perché contraddice il subhanahu del Corano, cioè subhan Allah, ecc… Ed appare così alle orecchie blasfemo. In realtà, il significato di subhaanii è riferito solo alle corrispondenti espressioni del Corano; sebbene rappresenti un vero controsenso (lo stesso vale per le altre Shatahat).

Fu necessario il genio e l’audacia del carattere ribelle di un Khorasanese per formulare delle shatahat come subhaanii dedotte sia dai versetti Coranici che da altre fonti Islamiche.

In diverse occasioni, le shatahat scorrevano sulla lingua di Abu Yazid quando cadeva in estasi ascoltando la recitazione di un versetto Coranico, o la voce del mu’adhdhin (muezzin) che esclamava “Allah Akbar”, ecc… Un giorno qualcuno recitò il versetto Coranico seguente: “il giorno quando raduneremo i pii, presso il Misericordioso, in folla” (Corano, 19:85). Udendo ciò, Abu Yazid andò in estasi, quindi si riscosse e si mise a dire:

“Colui il quale sia presso di Lui non ha bisogno di essere radunato, perché egli siede con Lui, eternamente” (Libro della Luce di Muhammad ibn ‘Ali al-Sahlaji, paragrafo 380, pag. 286).

Un’altra volta pronunciò:

“Non c’è Dio tranne Me! Ecco, ora adoratemi!”, subito dopo aver terminato la sua preghiera dell’alba (Libro della Luce di Muhammad ibn ‘Ali al-Sahlaji, Paragrafo 401, pag. 296).

Ciò dimostra che il suo subhaanii e le altre shatahat si riferiscono solo ai contesti Islamici. Quindi, qualsiasi tentativo di trovare una fonte extra-Islamica per subhaanii o per qualsiasi altra shath di Abu Yazid non ha senso.

iv) Il suo uso dell’espressioneAnta dhaka (Tu sei quello) e l’uso upanishadico di Tat tavam asi (Tu sei quello)

Mentre descriveva la sua esperienza del mi’raj, Abu Yazid disse di essersi rivolto a Dio in questo modo: “Adornami con la Tua unicità Divina (wahdaniyyah), vestimi colla tua individualità ed elevami alla tua unità… (ahadiyyah) cosicché quando le tue creature mi vedranno, possano dire:

“Abbiamo visto Te; poiché sarai Tu ad essere lì e non io.” (Libro della Luce, Paragrafo 364, pag. 279. Il corsivo non è presente nel Libro della Luce).

[Cf: La traduzione di Zaehner del testo è la seguente: “Adornami con la tua unità e rivestimi colla Tua individualità e innalzami fino alla tua Unicità, … (ahadiyyah) cosicché quando le tue creature mi vedranno, possano dire: Abbiamo visto Te (cioè Dio) e Tu sei quello. Eppure io (Abu Yazid) non ci sarò affatto.”]

Per Zaehner, “Tu sei quello” non è comprensibile nel contesto; perché, il pronome dimostrativo ‘quello’ (dhaka) non è mai usato nella lingua Araba per indicare Dio. Tuttavia, il pronome ‘quello’ (tat), viene regolarmente usato in Sanscrito come sinonimo di Brahman …

Infatti, secondo Zaehner, la frase Araba “takunu anta dhaka” (Tu sei quello) è una traduzione letterale del tat tvam asi del Chandogya Upanishad.

Arberry, per prima cosa, sottolinea l’errata traduzione di Zaehner circa la critica frase Araba in questione. Nella sua traduzione di “… e Tu sei quello”, afferma Arberry, Zaehner apparentemente non è riuscito a vedere il significato di “fa” che in Arabo indica la causalità. Zaehner afferma che il pronome “quello” (dhaka) non sarebbe usato in Arabo per indicare Dio e, pertanto “takunu anta dhaka” sarebbe una traduzione letterale di tat tvam asi; al contrario, però, Arberry dichiara che il Corano usa il pronome dha (quello) in molti posti per riferirsi a Dio (cita i versetti del Corano 6:102; 10:3; 10:32, 35:13; 39:6; 40:62, 40:64, e 42:10). Il ka aggiunto a dha che diventa dhaka (cioè quello) è nelle sue varie forme dei pronomi dimostrativi, una particella allocativa… relativa ad un oggetto che è moderatamente distante, o, secondo l’opinione generale, a ciò che occupa un posto intermedio tra il vicino e il lontano. Il pronome dimostrativo per gli oggetti lontani in Arabo è detto dhalika. Sembrerebbe … che Abu Yazid intendesse dire nient’altro che “quello” che le creature stavano vedendo (in una posizione intermedia tra il vicino e il lontano) era Dio, e che Abu Yazid aveva cessato di esistere come una parte completamente separata da Dio. Se questa interpretazione è corretta, è inutile il paragone col Sanscrito “tat tvam asi”. Abu Yazid disse: “Ci sono molti che sono vicini a noi, ma in realtà sono lontani, e molti altri che sono lontani da noi, ma in realtà sono vicini.” (Libro della Luce, paragrafo 73, pag. 136)

Arberry potrebbe aver ragione nella sua spiegazione del pronome dhaka. È possibile che quel dhaka di Abu Yazid si riferisse a Dio che non è né lontano né vicino a Dio, ma è onnipresente. Tuttavia, il tentativo di Arberry di scoprire un’espressione Coranica per ogni importante affermazione di Abu Yazid non è giustificabile. Abu Yazid non ha, e non ha dovuto, esprimere sempre la sua esperienza in termini Coranici ad ogni costo; tuttavia, non ha certamente mutuato le sue espressioni da fonti extra-Islamiche. Il vero errore di Zaehner è di aver preso la frase tat tvam asi al fuori da ogni contesto provando a dimostrare la sua somiglianza col takunu anta dhaka. Nell’Upanishad, Uddalaka Aruni, consiglia a suo figlio Svetaketu, quanto segue:

“sa ya eso ‘nima aitad atmyam idam sarvam, tat satyam, sa atma: tat tvam asi, svetaketo, iti; bhuya eva ma, bhagavan, vijnapayatv iti, tatha, saumya, iti hovaca.” (Chandogya Upanishad, VI, 8, 7)

“Qualunque sia questa essenza sottile (la radice di tutto), tutto l’universo è costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è l’Atman. Essa sei tu, o Svetaketu.” (Chandogya Upanishad, VI, 8, 7)

Dovremmo notare che i significati dei due testi differiscono. Nel contesto Indiano, il padre dice al figlio: Tu non sei solo te; sei tutto. Abu Yazid, d’altra parte, dice a Dio: Non voglio che ci sia alcun Abu Yazid che la gente possa vedere; voglio che ci sia solo Te e non me.

Inoltre, è ovvio che nel testo Upanishadico, un uomo si rivolge ad un altro uomo. Nel testo di Abu Yazid, peraltro, un uomo si rivolge a Dio. Lo dimostra chiaramente il racconto pervenutoci da Abu Musa secondo cui Abu Yazid nella sua preghiera diceva: “Fino a quando, tra Te e me, questa individualità (ananiyyah)? O Caro, Ti chiedo di annientare la mia individualità, affinché Tu sia la mia individualità, e resti soltanto Te e tranne Te, solo, niente venga più visto!” (Libro della Luce, paragrafo 412, pag. 305)

A prova che con l’espressione anta dhaka Abu Yazid si rivolgeva a Dio, possiamo citare un detto di Abu al-Hasan al-Kharaqani9 che risuona simile a quelli di Abu Yazid. Al-Kharaqani proclamava:

“Oh Dio! Nel giorno del giudizio i profeti si siederanno sui pulpiti (minbarhā) di luce e le creature li guarderanno, e i Tuoi amici (awliya’i tū) siederanno sui troni (kursihā) di luce e le creature li guarderanno, ma Abu al-Hasan siederà sulla Tua unità (yagānigī) in modo che le creature Ti guardino.”

Nell’ultima frase di questo detto possiamo individuare l’anta dhaka di Abu Yazid. In realtà, l’intero detto di al-Kharaqani è conforme alla famosa tradizione di Abu Yazid che stiamo trattando. I due detti sono simili perché al-Kharaqani, un discepolo Uwaysi di Abu Yazid, ha imitato il suo maestro il più fedelmente possibile. Molti dei detti contenuti nel Tadhkirat di Attar, nel Nafahat di Giami e in altre fonti, ricordano quelli di Abu Yazid non solo per significato, ma anche per forma.

v) Abu ‘Ali al-Sindi

Al-Sarraj riporta che Abu Yazid disse:

“Ero solito stare in compagnia di Abu ‘Ali Al-Sindi e gli mostravo come compiere i doveri obbligatori dell’Islam, e in cambio mi dava istruzioni sull’unità divina (tawhid) e sulle verità ultime (haqa’iq).” (traduzione di Zaehner, Kitab al Luma’ pag. 177)

Zaehner conclude, sulla base del testo di cui sopra, che l’uomo da cui Abu Yazid ha appreso le dottrine Indiane è Abu ‘Ali al-Sindi. Egli accetta l’opinione di Nicholson che questo famoso maestro di Abu Yazid apparteneva al Sind, sebbene Arberry e Massignon abbiano sottolineato dopo Nicholson che questo Sind potrebbe essere il nome di un villaggio del Khorasan registrato dal geografo Yaqut.

In risposta all’argomento di Arberry, Zaehner dichiara: “In teoria, naturalmente, tutto è possibile, ma è piuttosto difficile credere che il Sind a cui si fa riferimento non sia la provincia Indiana. Sembra “abbastanza chiaro” a Zaehner che Abu ‘Ali si convertì da un’altra religione; perché, com’è mostrato nel testo, egli “non sapeva nemmeno come eseguire i doveri obbligatori di un Musulmano.”

Arberry pensa che nel tradurre la frase “Gli mostravo come eseguire i doveri obbligatori dell’Islam”, Zaehner avesse ignorato l’interpretazione di Ritter secondo cui Abu Yazid “avesse insegnato ad [al-Sindi] i versetti Coranici necessari per la preghiera (Arberry ritiene che l’interpretazione di Ritter sia basata sulla breve nota di Abu ‘Ali al-Sindi nel Nafahat di Giami tratta dalle Shathiyat di Baqli). Secondo Arberry, le parole cruciali nel testo di al-Sarraj sono forse più sottili di quanto indichi la traduzione di Zaehner. Nel dizionario, il verbo laqqana significa “nello specifico” far comprendere una cosa che non si era mai capita prima (al tempo di Abu Yazid, il termine mulaqqin non aveva ancora acquisito il significato specifico di insegnante elementare che in seguito gli è stato attribuito…).”

Un accostamento tra il testo di al-Sarraj e la versione di Baqli, continua Arberry, ci dà motivo di ipotizzare che Abu Yazid intendesse dire che egli istruì Abu ‘Ali nell’esegesi della Sura I e CXII del Corano; ed in cambio, è detto che Abu ‘Ali insegnò ad Abu Yazid a ricordare che la Sura CXII è talvolta conosciuta col nome di Sura Tauhid.

Sulla base di ciò, Arberry presume, contrariamente alla supposizione di Zaehner, che Abu ‘Ali era un neo-convertito all’Islam, la cui educazione religiosa era minima o nulla. Abu ‘Ali era un campagnolo Musulmano che ricevette da Abu Yazid gli insegnamenti religiosi, e a sua sorpresa, scoprì nel suo allievo una vera padronanza mistica della comprensione di Dio. Se questa ipotesi è giusta, Abu ‘Ali apparterrebbe alla categoria del semplice santo, intuitivamente a conoscenza dei segreti divini, che non è affatto raro nell’agiografia Sufi.

Arberry sottolinea, inoltre, che anche se la nisbah (patronimico) al-Sindi si riferisse al Sind dell’India, non c’è motivo di pensare che Abu ‘Ali fosse originariamente un Indù. Cita degli esempi per dimostrare che la nisbah al-Sindi è stata applicata a molti discendenti degli originari conquistatori arabi del Sind. Per citare uno di questi esempi, il tradizionalista Abu Muhammad Raja’ al-Sindi, morto il 221/836, portava anche la nisba al-Nisaburi (vedi Tahdhib al-Tahdhib, III, 267) che lo porta molto lontano dal Sind; suo figlio e suo nipote, che seguivano la stessa professione, si chiamavano anche al-Sindi…

Quindi, Arberry sostiene che è pericoloso “concludere che un uomo del periodo di Abu Yazid fosse un nativo del Sind e convertito dall’Induismo perché portava la nisba al-Sindi.

Al-Samarra’i, pur sostenendo le opinioni del suo insegnante, ha ulteriormente elaborato delle argomentazioni. Relativamente al problema dell’insegnamento di Abu Yazid ad Abu ‘Ali, riproduciamo qui sotto le citazioni che al-Samarra’i ha tradotto dal Luma’ e dalla Risalah di al-Sarraj.  Al-Sarraj afferma: “il primo dovere richiedeva… la conoscenza degli obblighi stabiliti (Faraid) e la Sunnah, ciò che è desiderabile e ciò che è vietato da essi, ciò che è ingiunto, ciò che è appropriato e ciò che è stimato in virtù.” [Kitab al-Luma’, pp. 144, 149, 150]. Al-Qushayri ha detto più chiaramente: “Il novizio deve padroneggiare la scienza della legge religiosa, attraverso l’autocritica o chiedendo ai leader della religione, che ciò possa portarlo ad osservare ciò che è ordinato [fardahu  ]; se le opinioni che gli sono state attribuite dai giureconsulti sono diverse, prenda ciò che è concordato da tutti, ed eviti sempre le questioni che ammettano la differenza di opinione, perché la libertà nel diritto religioso è per coloro la cui fede è debole [Risalah, pag. 214]), e dice che il fard (l’obbligo) nella letteratura Sufi finì per significare non le osservanze che incombono su tutti i Musulmani come suggerisce Zaehner, ma “la stretta osservazione del rituale religioso e legalistico dell’Islam” in cui un novizio viene istruito da un maestro Sufi.

Per quanto riguarda l’insegnamento che Abu ‘Ali riservò ad Abu Yazid circa la dottrina del tawhid, al-Samarrai evidenzia le discrepanze presenti nella traduzione di Zaehner che traduce il tawhid sia come “unità divina” sia come “unione”.

Inoltre, osserva che l’intera visione di Zaehner è fondata sull’ipotesi che Abu Yazid fosse un analfabeta. Quest’ipotesi, afferma al-Samarra’i, si fonda sull’errata interpretazione che Zaehner ha della descrizione compiuta da al-Sahlagi su Abu Yazid, il quale è identificato come un ummi. Secondo al-Samarra’i, per al-Sahlagi, Abu Yazid non era “istruito nella dottrina esoterica”, ma non significa che fosse un “analfabeta” come interpreta Zaehner (noi pensiamo che in questo caso Zaehner abbia ragione. Abu Yazid, infatti, non era istruito nel senso che non aveva ricevuto alcuna istruzione formale se non le interpretazioni del Corano fino al versetto sul servizio devozionale a Dio e ai genitori trattate nel capitolo di Luqman).

Riguardo alla tesi di Zaehner che Abu ‘Ali fosse un Indiano del Sind, le argomentazioni di al-Samarra’i si aggiungono alle tesi del suo maestro in quanto entrambe le edizioni della Risalah ed un certo numero di manoscritti della stessa opera menzionano il nome di Abu’ Ali colla nisbah al-Suddi. Questa nisbah che indica il luogo di appartenenza o di provenienza geografica nell’onomastica araba, sembrerebbe più verosimile di al-Sindi perché c’era un villaggio col nome di Sudd vicino a Rayy, a due farsakh (o parasanga equivalente fra i 5,5 e 6,5 Km circa) da Bistam, sebbene fossero noti due villaggi vicino a Bistam che portavano il nome di Sind. Al-Samarra’i prosegue:

Al-Bistami fu descritto da al-Sahlaji come uno studente di Abu ‘Abd al-Rahim al-Suddi e di Abu ‘Abd al-Rahman Al-Suddi (anche Massignon ha affermato che Abu al-Sindi potrebbe essere stato ‘Abd al-Rahman al-Sindi), ma sembra che si tratti della stessa persona se confrontiamo le loro isnad (catena di trasmissione). Ancora una volta, la monografia di al-Sahlaji non fa alcun riferimento ad Abu ‘Ali, vicenda piuttosto curiosa. Inoltre, il poeta Giami (1414-1492) afferma che il suo insegnante Sufi era un Curdo, ma non ne rivela il suo nome o la sua identità. La supposizione del professor Zaehner secondo cui Abu ‘Ali sia stato convertito da Abu Yazid, non è altro che una congettura. Non siamo sicuri che Abu ‘Ali fosse un Curdo di al-Sudd, un villaggio nel quartiere di Rayy, che secondo il geografo Yaqut (1179-1229), è detto “la terra del Daylam”. Questa supposizione, però, fornisce almeno una prova storica tangibile. In alternativa, potrebbe essere originario di al-Sindiyya, un villaggio sul fiume di Isa. In ogni caso, si tratta sempre di supposizioni.

(Planche VII, plan de Bagdad, Louis Massignon, La Passion de Hallaj, Volume 1)

Siamo d’accordo con Zaehner sul fatto che, sebbene teoricamente sia possibile che la nisba di Abu ‘Ali al-Sindi si riferisca al villaggio Sind (o Sudd) del Khorasan, “è piuttosto difficile credere che il Sind a cui si riferisca non sia la provincia del Sind Indiano.” Arberry sostiene a ragione, ancora una volta, che sia pericoloso “concludere che un uomo del periodo di Abu Yazid fosse originario del Sind e convertito dall’Induismo solo perché porti la nisba al-Sindi. Ciò che ci sembra più probabile è che Abu ‘Ali fosse un discendente di uno dei primi conquistatori del Sind, molti dei quali, come ha dimostrato Arberry, portavano la nisbah al-Sindi. Sembra che non ci sia motivo di credere che Abu ‘Ali fosse originariamente un Indù proveniente direttamente dal Sind Indiano.

Inoltre, seppur Abu Yazid sia stato l’insegnante di Abu ‘Ali, non condividiamo l’opinione di Arberry e al-Samara’i secondo la quale Abu Yazid considerasse Abu ‘Ali un semplice campagnolo Musulmano. L’espressione Araba impiegata da Abu Yazid, sahabtu (il cui significato è: ho estratto, ho ritirato, ho prelevato), suggerisce che reputasse Abu ‘Ali il suo insegnante, non il suo allievo. Nelle shathiyyat è chiaramente riportato che Abu ‘Ali era uno degli insegnanti di Abu Yazid [Giami cita delle Shathiyat nel modo seguente: nel suo Sharh Shathiyat, Shaykh Ruzbehan Baqli dice; che lui (Abu ‘Ali) era uno dei maestri di Abu Yazid. Abu Yazid ha detto: “Ho imparato da Abu ‘Ali la conoscenza dell’autoannientamento nel tawhid (fana’ dar tawhid), e Abu ‘Ali ha imparato da me al-hamd e qul huwa Allah (cioè, i capitoli 1 e 112 del Corano) (Nafahat, pag. 57). Per il testo di Baqli, vedi Shathiyat, pagina 35.] Inoltre, Baqli ha classificato una massima di Abu ‘Ali secondo i criteri delle shatahat dei Sufi. In base a queste prove, accettiamo l’opinione di Zaehner secondo cui Abu ‘Ali fu un insegnante di Abu Yazid.

Abbiamo ancora un’altra domanda a cui rispondere, e riguarda l’insegnamento che Abu ‘Ali e Abu Yazid si sono scambiati vicendevolmente. Non possiamo accettare la visione di Arberry secondo cui Abu Yazid insegnò ad Abu ‘Ali “l’esegesi” dei capitoli 1 e 112 del Corano, né possiamo concordare con al-Samarra’i che Abu Yazid istruì Abu ‘Ali circa la stretta osservanza dei doveri religiosi. Le opinioni di Arberry e di al-Samarra’i si basano sul presupposto che Abu Yazid fosse il maestro e Abu ‘Ali il suo discepolo. Questa premessa, abbiamo visto, non sembra corretta.

D’altra parte, non abbiamo una risposta precisa a questa domanda. Pensiamo che la chiave per la soluzione del problema si trovi nel significato della parola “laqqana”. In base ai due significati che questa parola aveva al tempo di Abu Yazid, suggeriamo due risposte, una delle quali può essere giusta. Sottolineiamo, però, che entrambe queste risposte sono delle ipotesi.

Se per ‘laqqana’ Abu Yazid si riferiva alle istruzioni in senso ordinario, allora Abu Yazid insegnò ad Abu ‘Ali i doveri obbligatori del Musulmano, ad esempio, la preghiera e il digiuno, come suggerisce Zaehner, o i capitoli 1 e 112 del Corano come menziona la Shathiyat. Per Baqli, ‘laqqana’ è una semplice istruzione in base al detto secondo cui Abu ‘Ali disse: “‘ho imparato’ (amukht) da me,” ecc…. Se laqqana avesse un significato ulteriore, Baqli non avrebbe usato amukht per descrivere la situazione, perché, amukht si riferisce all’apprendimento in senso ordinario. Se questa interpretazione è corretta, dobbiamo accettare l’opinione di Zaehner secondo cui Abu ‘Ali era un Musulmano appena convertito; altrimenti, che senso avrebbe istruirlo nei doveri obbligatori Islamici o insegnargli i capitoli l e 112 del Corano? Queste cose sono di solito apprese dai bambini Musulmani subito dopo aver imparato a camminare e a parlare. In effetti, l’interpretazione di Zaehner è la spiegazione più ovvia per quanto riguarda Abu ‘Ali. In questo modo, si può spiegare molto più facilmente l’insegnamento impartito da Abu Yazid a Abu ‘Ali. Seppur aderente ad un’altra fede, Abu ‘Ali conosceva al-fana’ al-tawhid e, dopo la conversione, istruì Abu Yazid in questi soggetti mistici. L’istruzione di un Sufi da parte di qualcuno appartenente ad un’altra religione non è sconosciuta. Di Ibrahim b. Adham, ad esempio, è detto che abbia appreso la ma’rifah da un monaco Cristiano di nome Simeone (dovremmo ricordare che se un Musulmano impara il misticismo da un non Musulmano, non significa che il Musulmano diventa un non Musulmano. Ciò dimostra che il Sufismo si è ispirato a fonti esterne). Nel caso di Abu ‘Ali, tuttavia, non sappiamo a quale religione appartenesse. Non sappiamo se fosse un Indù o un Buddhista.

Se, nell’altro caso, laqqana significava imprimere qualcosa nella mente, come lasciar impressa un’idea nella mente di un bambino o come stampare la shahadah nella mente di un uomo morente, possiamo interpretare che ci fu un insegnamento reciproco. Sia Abu Yazid che Abu ‘Ali erano maestri Sufi (Musulmani). Si legarono tra loro e discussero di questioni mistiche come il tawhid e l’haqa’iq. Abu ‘Ali aveva più conoscenza su questi argomenti di Abu Yazid, cosicché quest’ultimo né beneficiò dal primo. Perciò, Abu Yazid riconobbe in Abu ‘Ali il suo maestro. D’altra parte, mentre discuteva della relazione tra Shari’ah e haqa’iq, Abu Yazid scoprì che il suo insegnante considerava la Shari’ah inutile dopo aver raggiunto la haqa’iq. Pertanto, Abu Yazid impresse nella mente di Abu ‘Ali la necessità di svolgere i doveri obbligatori prescritti dalla Shari’ah anche dopo il raggiungimento della haqa’iq.

La suddetta discussione mostra che non c’è quasi nessun elemento per supporre che Abu Yazid sia stato direttamente influenzato dal pensiero Indiano. Ciononostante, è molto probabile che Abu Yazid e altri Sufi del Khorasan, specialmente della parte nord-orientale, siano stati influenzati indirettamente dal pensiero Indiano. Il contatto culturale porta sempre a dare e avere; le idee sottostanti sono disseminate e i modelli di pensiero delle culture coinvolte vengono fecondate. Il contatto tra la Persia e l’India è noto per essere esistito fin dai tempi antichi.

Secondo il ‘Dabistan’ (Vedi A.E. Krymsky, “Un abbozzo dello sviluppo del Sufismo fino alla fine del terzo secolo dell’Egira”, trad. dal Russo di N.S. Doniach, Islamic Quarterly, VI (1961-1964), 85, n. 5.) sotto la dinastia discendente da Mahabid (il primo padre dell’umanità) si ebbero sovrani e religioni comuni; e il Mazdaismo, la religione di Zarathustra Spitama (Zordushta, Zoroastro) era un’eresia Bramina … Anche nelle antiche biografie di Zarathustra si menziona il saggio Bramino Changrach che sconfisse durante un dibattito Zarathustra. La nazione Indiana iniziò nell’antichità a Kabul, e là, la religione Indiana regnò per tempo immemorabile. La cultura e l’arte Persiana provenivano da Bamiyan e Balkh, dove la popolazione parlava il più puro dialetto Persiano “Dari” [] che era molto vicino al Sanscrito. La presenza Indiana a Bamiyan è testimoniata dalla distruzione dei Buddha, e Balkh (l’antica Bactria) è famosa per essere il luogo di nascita di Zoroastro e dei “Dustur” (capi religiosi), i sommi sacerdoti della sua religione. Un’influenza più decisiva del Brahmanesimo fu quella che il Buddismo ebbe sulla Persia. In sostanza, entrambe queste influenze sono una e la stessa. I missionari Buddisti ebbero successo in alcune province dell’Iran, probabilmente anche durante la dominazione Greca dell’India. Ai tempi dell’Imperatore Asoka, che inviò missionari in tutti i paesi, uno di loro, Madyantika, attirò molti seguaci a Kabul. Il Buddismo si diffuse rapidamente: il grammatico e pedagogo Greco Alessandro Poliistore (I secolo a.C.) nei suoi scritti menziona i samanei (filosofi o sacerdoti) Buddisti nella Battriana. C’era il Buddismo nella piccola Bukhara (anticamente regione a nord di Kashgar) in epoca pre-Cristiana. Ampère dichiara che nel quarto secolo d.C. dei pellegrini Cinesi trovarono nella Persia nord-orientale delle tribù Gotiche discese dall’Asia Centrale che avevano fondato uno stato civilizzato sotto l’influenza del Buddhismo.

L’influenza Indiana in Persia continuò anche dopo la conquista Musulmana, specialmente nelle aree remote del paese:

Quest’influenza era particolarmente potente sotto i Samanidi che governavano il Khorasan e la Transoxiana, in quanto il Buddhismo del KaraKitay vi svolgeva un ruolo importante. Nel Turkestan orientale, nella città di Khotan, il monaco Hi-hio tradusse il Sutra Indiano in Cinese nel 684 … I pellegrini Cinesi visitavano abbastanza spesso le regioni popolate da Iraniani. Alla luce di ciò, sarebbe inusuale se Abu Yazid, che proveniva dalla regione nord-orientale del Khorasan, non fosse stato influenzato dal pensiero Indiano, almeno in modo indiretto.

Riassumendo gli argomenti riguardanti la controversia sulla possibile influenza del pensiero Indiano su Abu Yazid, la maggior parte del suo pensiero si spiega richiamandosi a contesti Islamici. È estremamente importante che le sue affermazioni e le sue parole siano comprese nei contesti in cui sono state fatte. Estrapolare alcune parole ed espressioni di un sistema dal loro contesto e mostrarne le somiglianze con quelle di un altro sistema, ostacola, piuttosto che aiutare, la comprensione di entrambi i sistemi di pensiero. Per quanto riguarda il legame diretto tra il pensiero di Abu Yazid e i sistemi Indiani, ci sono poche prove che lo dimostrino. La connessione non è né semplice né chiara come, ad esempio, ha sostenuto Zaehner. Riteniamo, tuttavia, in considerazione del contatto culturale secolare esistito tra India e Khorasan, che sia stato normale per Abu Yazid ispirarsi al pensiero Indiano in modo indiretto.

A tal proposito, anche se supponiamo che Abu Yazid avesse mutuato alcuni elementi dal pensiero Indiano, li trasformò radicalmente che non avevano più l’aspetto originario. Erano “Islamizzati”, e quindi adatti per il nuovo contesto. Quando Abu Yazid “li Islamizzò”, non potevano più essere “rispediti” e riutilizzati in India. Per concludere questo capitolo, allo stato attuale della nostra scarsa conoscenza del primo Sufismo, è difficile tracciare un confronto attendibile tra i concetti Sufi e quelli di altri sistemi di pensiero, e così abbiamo ancora molto da scoprire.

Note

1 Brahman indica l’unità cosmica da cui tutto procede (significato più diffuso).

2 Ipseità: principio che afferma l’identità dell’essere individuale con sé stesso, detto soprattutto di esseri dotati di coscienza.

3 Atman: qualunque sia il significato etimologico, tuttora controverso, della parola atman, la sua più antica accezione è quella di “sé stesso” in antitesi con ciò che sé stesso non è, quindi “il proprio corpo, la propria persona, il proprio Io psico-fisico”, non ancora “l’anima spirituale ed eterna.”

4 Conze dichiara, altrove, che fondamentalmente il Nirvana “è impensabile e incomprensibile. È un valore terapeuticamente prezioso, sebbene si tratti di un concetto fondamentalmente illusorio che, durante certe fasi del nostro progresso spirituale, può essere utile ai nostri pensieri per entrare nella pratica della contemplazione.” Anche Sri Aurobindo dichiara: “Il Nirvana non è e né può essere la fine del cammino senza più nulla da esplorare… è invece la fine del cammino inferiore, attraverso la Natura inferiore e il principio dell’evoluzione superiore.”

5 Sutra Mahayana: sono tradizioni del Buddhismo Mahayana conservati nei canoni Cinese, Tibetano e nei manoscritti Sanscriti.

6 Dharma ha molti significati: “Dovere”, “Legge”, “Legge cosmica”, “Legge Naturale”, oppure “il modo in cui le cose sono” o come equivalente del termine occidentale “Religione.”

7 Bodhisattva è un sostantivo maschile sanscrito che significa “Essere (sattva) ‘illuminazione’ (bodhi)”. È un termine proprio del Buddhismo.

8 Guṇa è un termine Sanscrito che significa: “merito”, “qualità”, “virtù”, o anche “corda”, “attributo”, “suddivisione”. Nella filosofia Indù del Samkhya il termine è adoperato per indicare i tre componenti ultimi della materia (prakrti): sattva, rajas, tamas.

9 Al-Kharaqani visse nel Khorasan circa duecento anni dopo Abu Yazid, ma lo spirito di Abu Yazid fu il suo maestro. La sua venerazione per Abu Yazid fu così grande che prima di morire ordinò ai suoi discepoli di scavargli la tomba ad una profondità di trenta yard (circa 30 metri) affinché fosse sepolto ad un livello inferiore a quello di Abu Yazid.

Bibliografia

Muhammad ‘Abdu-r-Rabb, Abu Yazid al-Bistami: His Life and Doctrines

Muhammad Ibn ‘Ali al-Sahlaji, Il libro della luce. Fatti e detti di Abu Yazid Al-Bistami, 2018, trad. N. Norozi.

Carlo Della Casa, Upanishad, Utet, 1976

/ 5
Grazie per aver votato!