CIBARSI DI MANZO NELL’INDIA ANTICA

IL PARADOSSO DELLA VACCA INDIANA: CIBARSI DI MANZO NELL’INDIA ANTICA

A cura di Dwijendra Narayan Jha. Storico Indiano Indù, è specializzato in Storia Antica e Medievale Indiana. È Professore all’Università di Delhi e membro del consiglio Indiano della ricerca Storica. Questo nostro fratello Indù è un vero difensore della verità. Contrario all’ideologia fondamentalista Induista è stato minacciato di morte.

https://www.nationalheraldindia.com/obituary/a-tribute-to-prof-dwijendra-narayan-jha-1940-2021-a-historian-extraordinaire (Un omaggio al Prof. Dwijendra Narayan Jha (1940-2021): Uno storico, straordinario)

http://en.wikipedia.org/wiki/D_N_Jha

INTRODUZIONE AL VERO VEDISMO

L’Indiano medio d’oggi, radicato nella tradizionale eredità religiosa Induista, è portatore di malintesi generati dai suoi antenati, specialmente degli Ariani Vedici, i quali accordavano una grande importanza alla sacralità della vacca. La vacca “sacra” è considerata un simbolo dell’identità comunitaria Indù, la cui tradizione culturale si ritiene spesso minacciata dai Musulmani, essendo reputati dei mangiatori di manzo. Quindi, la santità della mucca è stata strombazzata facendola risalire erroneamente ai Veda, che sono presumibilmente d’origine divina, nonché la fonte di tutta la conoscenza e saggezza. In altre parole, alcuni strati della società Indiana fanno risalire il concetto della vacca sacra proprio al periodo in cui era sacrificata e mangiata.

Ancor più rilevante è che la vacca col passar del tempo, si è trasformata in uno strumento politico nelle mani dei governanti. Si sostiene che gli imperatori Mogol (ad esempio, Babar, Akbar, Jahangir, Aurangzeb, ecc…) abbiano imposto dei divieti limitanti la macellazione della mucca per compiacere la sensibilità Jaina e Brahmanica rispettosamente devota al bovino [1]. Ugualmente, di Shivaji Bhosle, che qualche volta è considerato un’incarnazione Divina discesa sulla terra a liberare la mucca e i bramini, si cita il suo proclama: “Siamo Indù ed i signori legittimi del regno. Ci è ingiusto testimoniare il macello della mucca e l’oppressione dei bramini.”[2].

La mucca si trasformò in uno strumento di mobilitazione organizzata e politica quando il movimento Induista per la protezione della vacca, che era stato avviato insieme alla setta Sikh Kuka (o Namdhari) nel Punjab attorno al 1870, fu successivamente rafforzato nel 1882 dalla prima Gorakshini Sabha (Società per la Protezione della Vacca) fondata da Dayanananda Saraswati; il quale fece di quest’animale un simbolo per unire il più vasto consenso popolare e sfidare la pratica Musulmana della macellazione, provocando una serie di gravi e frequenti insurrezioni tra il 1880 e il 1890. Sebbene si facesse già ricorso all’intimidazione nei confronti di coloro che abbattevano questi animali, ed un’indubbia e “drammatica intensificazione” del movimento per la protezione della vacca si stava rafforzando, nel 1888 l’Alta Corte per le province Nord-Occidentali decretò che la mucca non era un oggetto sacro.[3] Non sorprende, quindi, che la macellazione della vacca sia stata spesso un pretesto per attizzare lo scontro tra Indù e Musulmani, come nel caso del distretto di Azamgarh nel 1893, in cui più di un centinaio di persone furono uccise nella regione. Analogamente, tra il 1912 e il 1913 la violenza esplose a Ayodhya, e pochi anni dopo, nel 1917, Shahabad fu testimone di una disastrosa conflagrazione.[4]

Il problema dell’abbattimento della vacca è emerso più volte fastidiosamente sulla scena politica Indiana, anche dell’India indipendente, malgrado che la legislazione di parecchie legislature proibisca la mattazione della mucca, ed i Principi Direttivi della Polizia di Stato nella Costituzione Indiana “… adottino delle misure per… proibire la macellazione delle vacche e dei vitelli, e di altri bovini da latte e da tiro.” Per esempio, nel 1966 quasi due decadi dopo l’indipendenza Indiana, pressoché tutti i partiti e i movimenti politici Indiani organizzarono un’enorme dimostrazione cui aderirono centinaia di migliaia di persone per vietare sul territorio nazionale la macellazione della vacca. Al termine di questa manifestazione ci furono degli incidenti con la morte di almeno otto persone ed il ferimento di decine di dimostranti. Nell’aprile 1979, Acharya Vinoba Bhave, ritenuto spesso l’erede spirituale del Mahatma Gandhi, fece uno sciopero della fame per chiedere insistentemente al governo centrale la proibizione della macellazione bovina in tutto il paese, e quando lo concluse dopo cinque giorni, ottenne dal Primo Ministro Morarji Desai solo una vaga assicurazione sulla presa in considerazione della legislazione anti-macello. Da quel momento, la vacca cessò di essere un problema nell’arena politica Indiana per molti anni, nonostante che la gestione dell’allevamento del bestiame bovino fu dibattuta in ambito accademico fra sociologi, antropologi, economisti e le diverse categorie della politica costituzionale.

Tuttavia, la venerazione della mucca è stata convertita nel simbolo dell’identità comunitaria Indù. Chi non riconosce deliberatamente che la “sacralità” dell’animale appartenne all’epoca Vedica, all’età Brahmanica e alle tradizioni non Brahmaniche, e chi sostiene che il manzo ed altre varietà di carne abbiano spesso fatto parte della cucina raffinata dell’India antica, è annoverato tra le forze oscurantiste e fondamentaliste. Sebbene gli Shina, musulmani della regione del Dardistan (Pakistan), considerino la vacca impura al pari del maiale ed evitino il diretto contatto con essa rifiutandosi di bere il suo latte, di usare lo sterco come combustile e di alimentarsi di carne bovina,[5] i sedicenti custodi di quest’inesistente e “monolitico” Induismo asseriscono che la pratica di mangiare manzo fu introdotta in India dai seguaci dell’Islam che provenivano da paesi stranieri, ma non si rendono conto che i loro antenati Vedici erano anch’essi degli stranieri e dei mangiatori sia di manzo sia di vari altri animali. Trattandosi di un fanatismo senza precedenti, non sorprende che il Rashtriya Svayamsevak Sangha (RSS), il Vishwa Hindu Parishad, il Bajrang Dal e le numerose fazioni ad essi collegate, abbiano bandito la mattazione della vacca a livello nazionale inserendola nel programma della loro agenda. Il Primo Ministro del Gujarat (Keshubhai Patel) ha ammesso qualche tempo fa, che la creazione di un apposito settore per la preservazione delle razze bovine e la gestione dei templi Indù è un espediente pre-elettorale.[6] Più recentemente, un leader del Bajrang Dal ha minacciato di aggregare 30 lakh di volontari per una manifestazione contro la macellazione della mucca nel mese di Bakrid nell’anno 2002.[7] Il vegetarianesimo è stato così ben orchestrato e dipinto come tratto caratteristico dell’Induismo, che quando l’RSS rivendicò il Sikhismo appartenente all’Induismo, i seguaci Sikh si opposero con veemenza ed uno dei loro giovani leader propose: “Perché non macellate una vacca e la servite nei gurudwara langar?”[8]

I comunalisti che sollevano un gran fracasso sulla vacca nell’arena politica Indiana, non capiscono che l’assunzione di carne bovina fu una pratica diffusissima in India per molto tempo, e che le discussioni relative al suo eccessivo consumo sono tratte dalle sacre scritture e dai testi religiosi Indù (vedasi questo breve studio).

Comunque, la risposta data dagli storici al pensiero e alla cultura alimentare dell’India moderna è stata rigorosa; infatti, gli studiosi hanno dimostrato muniti di prove testuali che l’ingestione di manzo è presente nel più antico testo religioso Indiano, il Rigveda, presumibilmente d’origine divina. H.H. Wilson, scrittore della prima metà del diciannovesimo secolo, ha affermato: “il sacrificio del cavallo o della vacca, il gomedha o l’asvamedha, era comune nel primo periodo del ritualismo Induista.” L’opinione che convince maggiormente riguardo al rito sacrificale del bestiame bovino e all’assunzione della sua carne come usanza prevalente tra gli Indo-Ariani, fu messa in circolazione da Rajendra Lal Mitra in un articolo che apparve per la prima volta nel Journal of the Asiatic Society of Bengal, e che costituì in seguito un capitolo del suo libro intitolato The Indo-Aryans e pubblicato nel 1891. Nel 1894 William Crooke, un funzionario britannico, raccolse un’impressionante quantità di dati etnografici sulle pratiche e sulle credenze religiose popolari nella sua opera in due volumi, di cui un intero capitolo era dedicato al rispetto mostrato verso gli animali, inclusa la vacca [9]. Più tardi, nel 1912, pubblicò una relazione sulla santità della vacca in India, ma attirò anche l’attenzione sull’antica pratica di mangiare il manzo e sul suo proseguimento nel tempo.[10] Nel 1927, L. L. Sundara Ram dimostrò con argomenti convincenti che la protezione della mucca trova la sua giustificazione nelle sacre scritture delle differenti religioni, compreso l’Induismo. Tuttavia, non negò che il popolo Vedico si nutrisse di manzo,[11] anche se incolpò ai Musulmani la mattazione della vacca. Più tardi, nei primi anni quaranta, P. V. Kane, nella sua monumentale opera intitolata “History of Dharmasastra”, si riferisce ad alcuni dei primi passaggi Vedici e Dharmasastrici che citano la mattazione della vacca ed il consumo di carne bovina. H.D. Sankalia ha attirato l’attenzione sulle testimonianze letterarie ed archeologiche che l’assunzione di manzo era comunissima nell’India antica.[12] Allo stesso modo, Laxman Shastri Joshi, un Sanscritista d’indiscussa erudizione, si è soffermato sui testi del Dharmasastra, i quali sostengono inequivocabilmente che alimentarsi d’ogni tipo di carne, inclusa quella bovina, era una pratica predominante dell’India antica.[13]

È inutile affermare che tutti questi studiosi erano degli eruditi di grosso calibro, e nessuno fra loro era orientato ideologicamente contro l’Induismo. HH Wilson, per esempio, occupò la prima cattedra di Sanscrito ad Oxford nel 1832, e non fu dichiaratamente anti-Indiano, al contrario d’altri sapienti marcatamente filo-imperialisti. Rajendra Lal Mitra, un prodotto del rinascimento Bengalese e stretto collaboratore del fratello maggiore di Rabindranath, Jyotindranath Tagore, dette un contributo significativo alla vita intellettuale Indiana essendo definito sia da Max Mueller come “il miglior Indologista vivente” del suo tempo, sia da Rabindranath Tagore come “il più amato figlio delle muse”. William Crooke, un noto etnografo coloniale, scrisse estesamente sulla vita contadina e sulla religione popolare senza aver alcun pregiudizio nei confronti dell’Induismo. L. L. Sundara Ram, nonostante la sua sensibilità moderatamente anti-Musulmana, fu ispirato da considerazioni umanitarie. Mahamahopadhyaya P.V. Kane era un bramino Marathi conservatore e l’unico Sanscritista ad essere stato onorato col titolo di Bharat Ratna. H.D. Sankalia combinò la sua ineguagliabile attività archeologica con una profonda conoscenza di Sanscrito. Oltre ai suddetti studiosi, parecchi altri Sanscritisti e Indologisti Indiani, per non citare un certo numero d’eruditi occidentali, hanno attirato ripetutamente la nostra attenzione sulle testimonianze testuali indicanti che la consumazione del manzo e d’altre carni animali era una pratica diffusa nell’India antica. Per quanto curioso possa sembrare, il Sangh Parivar (in Hindi, l’Associazione delle Famiglie), nonostante il suo pesante fardello di “analfabetismo civilizzatore”, non ha mai puntato il dito contro questi rispettabili studiosi, ma contro gli storici che si affidano alle loro ricerche (nel 2002 il Sangh Parivar incoraggiò le violenze contro i Musulmani Indiani in particolare, e contro i Musulmani in generale).

http://en.wikipedia.org/wiki/Sangh_Parivar

Non è possibile sminuire il contributo dato da questi studiosi, ma il loro lavoro è limitato, perché si sono concentrati soprattutto sui testi Vedici riferendo solo delle isolate informazioni sul consumo di carne bovina, incuranti del fatto che la tradizione carnivora prevalse in India. Contrariamente alle loro opere, il presente documento porta l’attenzione sulle prove testuali disperse nel tempo riguardanti l’abbattimento del bestiame bovino e l’assunzione di carne in India. Questi riscontri indicano che il consumo di carne fu continuo e secolare nella civiltà Brahmanica, e suggeriscono che la supposta santità della vacca non la vincola alle odierne pratiche della società Indiana.

II

I primi Ariani che emigrarono in India si portarono appresso tutti i loro tratti culturali anteriori, ed anche dopo molti secoli, il pastoralismo, il nomadismo ed il sacrificio animale rimasero le caratteristiche peculiari della loro vita, finché divennero dei contadini sedentari dediti all’agricoltura, da cui traevano sostentamento. I sacrifici animali erano molto comuni, e nell’agnadheya, un rito preparatorio che precede tutti i sacrifici pubblici, la vacca era necessariamente uccisa.[14] Nell’asvamedha, il più importante dei sacrifici pubblici, il primo citato nel Rigveda e trattato nei Brahmana, più di 600 animali (inclusi i selvatici come i cinghiali) e molti uccelli furono uccisi, e per il gran finale del rituale si sacrificarono 21 vacche sterili.[15] Nel gosava, un rituale sacrificale pubblico al pari del rajasuya e del vajapeya, una mucca sterile a chiazze fu offerta ai Marut (divinità della tempesta) e diciassette “giovenche nane sotto i tre anni” morirono nel panchasaradiya sava.[16] L’uccisione d’animali e di bestiame bovino avveniva anche in altri yajna, detti haviryajna, ad esempio nel caturmasya, nel sautramani e nel sacrificio animale indipendente denominato pasubandha o nirudhapasubandha.[17]

http://en.wikipedia.org/wiki/Yagna (descrizione dei vari tipi di sacrifici animali in inglese)

Questi e molti altri sacrifici importanti coinvolsero l’abbattimento d’animali incluso il bestiame bovino, che costituiva la principale fonte di ricchezza dei primi Ariani, i quali, non sorprendentemente, pregavano per i bovini e li sacrificavano per propiziare i loro dei.

Le divinità Vediche, a cui i vari sacrifici furono rivolti, non avevano alcun menù fisso da rispettare. Il latte, il burro, l’orzo, i buoi, le capre e le pecore erano offerti in loro onore e questi prodotti costituivano il loro cibo abituale, sebbene alcune di esse avevano delle preferenze particolari. Indra gradiva particolarmente i tori.

Rig Veda, Libro 5, Inno 29, versetto 7ab

“Come l’amico si prende cura di un amico, Agni ha condito in fretta trecento bufali, proprio come lui voleva. E Indra, dall’uomo ricevette un regalo, per la macellazione di Vrtra*, e tracannò subito tre laghi di spremuto Soma” (Rig Veda, Libro 5, Inno 29, versetto 7ab) * Vrtra è il dio del caos

Fonte web: http://www.hinduwebsite.com/sacredscripts/rig_veda_book_5.asp

Rig Veda, Libro 6, Inno 17, versetto 11b

“Lui, Pusan Visnu, si versò davanti tre grandi vasi, il succo che conforta, che macella Vrtra” (Rig Veda, Libro 6, Inno 17, versetto 11b) * Usas, Savitar, Surya, Pusan, Visnu sono dei solari.

Fonte web: http://www.hinduwebsite.com/sacredscripts/rig_veda_book_6.asp

Rig Veda, Libro 8, Inno 12, versetto 8ab

“Quando, Potente Signore degli Eroi, vomitasti un migliaio di bufali, poi crebbe e divenne eccelso il tuo potere Indra.” (Rig Veda, Libro 8, Inno 12, versetto 8ab)

Fonte web: http://www.hinduwebsite.com/sacredscripts/rig_veda_book_8.asp

Rig Veda, Libro 10, Inno 27, versetto 2

“Poi, quando condurrò i miei amici a combattere contro i raggianti miscredenti, preparo per te a casa un vigoroso vitellone, e ti verso per quindici volte dei forti succhi.” (Rig Veda, Libro 10, Inno 27, versetto 2)

Fonte web: http://www.hinduwebsite.com/sacredscripts/rig_veda_book_10.asp

Rig Veda, Libro 10, Inno 28, versetto 3

“O Indra, forte, dell’allietante Soma più ne bevi. I tori sono preparati per te, e di questa (carne) tu più ne mangi quando Maghavan (Indra) t’invita al banchetto.” (Rig Veda, Libro 10, Inno 28, versetto 3)

Fonte web: http://www.hinduwebsite.com/sacredscripts/rig_veda_book_10.asp

Rig Veda, Libro 10, Inno 86, verso 13-14

“Indra mangerà i tuoi buoi, la tua preziosa offerta che vale molto. Indra è a tutti supremo. Quindici o venti bovini, allora, per me una ventina di vitelloni preparano, e io divoro da loro il grasso, e mi riempio la pancia. Indra il Supremo, è sopra ogni cosa.” (Rig Veda, Libro 10, Inno 86, verso 13-14)

Fonte web: http://www.hinduwebsite.com/sacredscripts/rig_veda_book_10.asp

Agni non fu un bevitore come Indra, ma prediligeva alimenti d’origine animale tra cui la carne di cavallo, di toro e di vacca.

Rig Veda, Libro 8, Inno 43, Versetto 11

“Cerchiamo di servire Agni coi nostri inni, il Dispensatore, nutrito con bue e vacca, Colui che trasporta il Soma sulla sua schiena” (Rig Veda, Libro 8, Inno 43, Versetto 11)

Fonte web: http://www.hinduwebsite.com/sacredscripts/rig_veda_book_8.asp

Rig Veda, Libro 10, Inno 91, versetto 14ab

“… i cavalli, i tori, i buoi, le mucche sterili, e gli arieti, quando sono debitamente separati, sono offerti ad Agni, l’irroratore di Soma, il bevitore del dolce succo, il Dispensatore, e col mio cuore apporto un giusto inno.” (Rig Veda, Libro 10, Inno 91, versetto 14ab)

Fonte web: http://www.hinduwebsite.com/sacredscripts/rig_veda_book_10.asp

Lo sdentato Pusan, divinità solare Vedica, protettore dei pastori, dei viandanti e degli agricoltori, mangiò una poltiglia di carne come scelta obbligata. Il Soma fu il nome di una bevanda inebriante, importante e fondamentale offerta ad un dio nella maggior parte degli yajna (d’animali e bestiame bovino) riportati nel Rigveda.

Rig Veda, Libro 10, Inno 91, versetto 14ab

“… i cavalli, i tori, i buoi, le mucche sterili, e gli arieti, quando sono debitamente separati, sono offerti ad Agni, l’irroratore di Soma, il bevitore del dolce succo, il Dispensatore, e col mio cuore apporto un giusto inno.” (Rig Veda, Libro 10, Inno 91, versetto 14ab)

http://www.hinduwebsite.com/sacredscripts/rig_veda_book_10.asp

Satapatha Brahmana, Kanda 3, Adhayaya 1, Brahman 2, Shaloka 21

Ai Marut e agli Asvin (divinità gemelle della luce) furono anche offerte delle vacche. I Veda citano circa 250 animali, di cui almeno 50 sono ritenuti idonei per il sacrificio, e implicitamente per l’ottenimento del favore divino e per essere consumati come alimento. Il cibo animale occupò un posto di rilievo nella dietetica e nei sacrifici Vedici, e le comuni predilezioni per la carne bovina sono innegabili. Il Taittiriya Brahmana (III.9.8) dichiara categoricamente: “In verità la vacca è un alimento” (atho annam vai gauh) e il Satapatha Brahmana (Kanda 3, Adhayaya 1, Brahman 2, Shaloka 21) si riferisce all’ostinata insistenza di Yajnavalkya di mangiare la tenera (amsala) carne di vacca.

“Mangia la carne che è più tenera” (Satapatha Brahmana, Kanda 3, Adhayaya 1, Brahman 2, Shaloka 21)

Fonte web: http://www.sacred-texts.com/hin/sbr/sbe26/sbe2604.htm

Secondo i testi Brahmanici successivi (exempli gratia, i Grhyasutra e i Dharmasutra) l’uccisione d’animali e l’assunzione di manzo era obbligatoria. La cerimonia di ricevimento dell’ospite (nota come arghya nel Rigveda, ma generalmente come madhuparka nei testi susseguenti) non solo consisteva in un pasto misto tra cagliate e miele, ma anche di carne bovina (vacca o toro). I primi legislatori resero il consumo di carne obbligatorio col madhuparka, quest’estensione giuridica è un’ingiunzione più o meno predetta da molti altri testi legali posteriori: Asvalayana Grhyasutra (AsGS) I.24.33; Katha Grhyasûtra (KathaGS), 24,20; Sankhayana-Grhyasutra (SankhGS) II.15.2; Paraskara Grhyasutra (ParGS), I.3.29). Un ospite, quindi, è descritto da Panini come un goghna (uno cui é macellata una mucca). La cerimonia del cordoncino sacro (yajnopavita) non era ritenuta del tutto sacra se uno snataka non indossava un indumento pregiato di pelle bovina (ParGS, II.5.17-20).

Rig Veda, Libro 10, Inno 16, verso 7

La macellazione animale costituì un elemento importante del culto mortuario nei testi Vedici come pure nelle opere posteriori al Dharmasastra. Il grasso denso della vacca fu usato per coprire il corpo del morto:

“Proteggi assolutamente la tua carne dalle fiamme di Agni (con ‘godharma’: norma del bestiame bovino). Avvolgiti con grasso e midollo…” (Rig Veda, Libro 10, Inno 16, verso 7)

Fonte web: http://www.sacred-texts.com/hin/rigveda/rv10016.htm

Atharvaveda, Libro 12, Inno 4, versetto 48

E un toro era arso insieme al cadavere per permettere al defunto di viaggiare all’interno dell’inferno. I riti funebri inclusero il cibo ordinato ai bramini dopo il periodo prescritto, e solitamente la carne di vacca o di bue era offerta al morto:

“È così bramini! È il vostro sacrificio: così se uno dovesse pensare quando è domandato, Quando supplicano da lui la Vacca impaurita…” (Atharvaveda, Libro 12, Inno 4, versetto 48)

Fonte web: http://www.sacred-texts.com/hin/av/av12004.htm

Le prescrizioni testuali indicano che il grado di soddisfazione ottenuto dai Manes (i Pitris o le anime dei defunti) dipende dal tipo d’animale offerto: la carne di vacca potrebbe tenerli contenti per almeno un anno! I testi Vedici e post-Vedici accennano spesso all’uccisione d’animali, e la vacca è compresa in numerosi rituali. Il gavamayana, un’adunanza sacrificale eseguita dai bramini, per esempio, era contrassegnata dalla macellazione animale, e terminava in un esagerato festival pubblico di tipo baccanale (mahavrata) in cui il bestiame bovino era abbattuto. V’era, quindi, una relazione fra il sacrificio ed il sostentamento. Questo non significa necessariamente che i diversi tipi di carne erano mangiati solo se offerti durante il sacrificio. Per esempio, nel grhamedha, che è stato discusso in parecchie Srautasutra, un numero impreciso di mucche furono mattate in modo non rituale, secondo uno stile grezzo e profano.[18] Inoltre, numerose testimonianze archeologiche suggeriscono di non uccidere ritualmente il bestiame bovino. Questo dato è indicativo giacché la carne bovina e quella d’altri animali fa parte delle abitudini alimentari popolari; inoltre, la carne commestibile non fu sempre consacrata ritualmente, anche se alcuni studiosi hanno sostenuto il contrario.[19] Nonostante la schiacciante prova a sostegno della macellazione bovina in età Vedica, diversi studiosi hanno ostinatamente dichiarato che la vacca in quell’epoca era sacra ed inviolabile, sia in base alla parola aghnya/aghnya (letteralmente, non può essere ammazzata) contenuta nell’Atharvaveda, sia per l’utilizzo d’epiteti usati al posto della vacca, istituendo così un rapporto o delle metafore con entità dal significato religioso più elevato. In ogni caso, è stato provato convincentemente che anche se la vacca Vedica fosse stata inviolabile, questa condizione accadde solo quando un bramino accettò la mucca come compenso sacrificale (daksina).[20] Infatti, quest’elemento non costituisce l’indice di santità dell’animale, né la sua inviolabilità nel periodo Vedico o anche posteriore.

Non si può edificare troppo la dottrina dell’ahimsa (non fare del male ad alcun essere vivente) riguardo alla vacca. Gautama Buddha e Mahavira hanno dato risalto all’idea della non-violenza, che fece la sua prima apparizione nel pensiero e nella letteratura Upanishadica. Nonostante la loro veemente opposizione al sacrificio animale Vedico, né loro né i loro seguaci erano avversi al consumo di carne. Buddha è noto per aver mangiato il manzo ed il maiale, e i testi indicano ampiamente che la carne (d’uccello e d’animale all’infuori di pesce, vongola, ecc..) soddisfò molto bene il palato Buddhista. Asoka, la cui compassione per gli animali è innegabile, permise che certe specifiche bestie fossero uccise per la sua cucina. Infatti, né l’elenco degli animali che Asoka esentò dalla macellazione, né l’Arthasastra (L’arte del governo) di Kautilya citano la vacca come non macellabile. Il bestiame bovino fu abbattuto e consumato come alimento durante il periodo Mauryan.

Al pari del Buddhismo, anche il Giainismo ha accolto entusiasticamente i vessilli della non-violenza. Nutrirsi di carne fu così comune nell’epoca Vedica e post-Vedica, che anche di Mahavira, il fondatore del Giainismo, si afferma che abbia mangiato un galletto. È probabile che i primi Giainisti non fossero strettamente vegetariani. Un gran logico Jaina dell’ottavo secolo, Haribhadrasuri, narra che i monaci non obiettavano in nessun modo quando era loro offerto pesce e carne; infatti, esistono prove testuali ed inconfutabili che l’assunzione di carne divenne solo in seguito un forte tabù tra i seguaci del Giainismo. L’inflessibile rifiuto Jaina di mangiare carne si radica in profondità nei principi fondamentali della loro filosofia, che, almeno in teoria, rispetta imparzialmente tutte le forme di vita senza accordare alcuna stima speciale alla mucca. Così, sebbene il Buddhismo, e, in misura maggiore il Giainismo, abbiano contribuito alla crescita della dottrina dell’ahimsa, nessuno tra loro ha sviluppato in maniera autonoma il concetto di vacca sacra.

III

Nonostante il patrocinio Upanishadico, Buddhista e Jaina all’ahimsa, la pratica rituale e casuale della mattazione animale compresa quella bovina, continuò per secoli dopo il periodo Mauryan. Il libro della “legge di Manu” (200 a.C.-d.C. 200), che è il testo giuridico più rappresentativo, la dice lunga sugli alimenti leciti ed illeciti, e contiene parecchi passi sul consumo di carne che hanno molti punti in comune alle prime e tarde opere giuridiche Brahmaniche. Al pari dei primi testi giuridici, esso menziona la carne animale che potrebbe essere mangiata. L’elenco di Manu comprende l’istrice, il riccio, l’iguana, il rinoceronte, la tartaruga, la lepre e tutti gli animali domestici muniti di denti in una sola mandibola, eccezion fatta per il cammello. È significativo che la vacca non sia esclusa dalla lista degli animali commestibili.

Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 18

“Il porcospino, il riccio, l’iguana, il rinoceronte, la testuggine, e la lepre sono dichiarati mangiabili; ugualmente quelli (animali domestici) che hanno i denti in una sola mascella, a eccezione dei cammelli.” (Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 18)

Fonte web: http://www.sacred-texts.com/hin/manu/manu05.htm

Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 31

Mangiare carne nelle occasioni sacrificali, Manu c’informa, è una regola divina (daivo vidhih smrtah), ma agire in tal modo in altri specifici eventi è una pratica demoniaca.

“La consumazione di carne (è adatta) per i sacrifici, è detto che quella regola sia fatta per gli dei; ma persistere (nel suo utilizzo) in altre (occasioni) sarebbe un procedimento degno dei Rakshasa.” (Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 31)

Fonte web: http://www.sacred-texts.com/hin/manu/manu05.htm

Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 32

Di conseguenza, non vi è alcun errore nel mangiare carne in onore degli dei, dei Manes e degli ospiti (madhuparka ca yajne ca pitrdaivatakarmani), a prescindere dal modo in cui la carne sia procurata.

“Colui che mangia carne, quando onora gli dei e i Manes, non commette peccato, se l’ha acquistata, o se ha ucciso lui stesso (l’animale), o se l’ha ricevuta in regalo da altri.” (Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 32)

“Offrendo una mistura di miele (ad un ospite), ad un sacrificio e nei riti in onore dei Manes, ma solo in queste occasioni, può essere macellato un animale; quella (regola) Manu proclamò.” (Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 41)

Fonte web: http://www.sacred-texts.com/hin/manu/manu05.htm

Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 39

Manu asserisce che gli animali furono creati per l’amore sacrificale. Ucciderli nelle occasioni rituali non significa né ammazzarli né violentarli (himsa), infatti il Veda (vedavihitahimsa) ingiunge che non costituisce danno:

“Svayambhu (l’Essere Auto-esistente) stesso creò gli animali per l’amore sacrificale; i sacrifici (sono stati istituiti) per il bene di quest’intero (mondo); quindi la macellazione (delle bestie) per i sacrifici non è macellazione (nel senso ordinario del termine).” (Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 39)

“Sappiate che la ferita alle creature che si spostano e a quelle stanziali, che il Veda ha prescritto per determinate occasioni, non è per niente una ferita; per la legge sacra che brillò davanti al Veda.” (Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 44)

Fonte web: http://www.sacred-texts.com/hin/manu/manu05.htm

Le leggi di Manu, capitolo 10, versetti 105-109

Nella sezione che si occupa delle regole riguardanti la carestia, Manu richiama l’attenzione sugli esempi leggendari trasmessi dai bramini più virtuosi, i quali in antichità si cibavano di carne bovina e di cane per evitare la morte da inedia:

“105. Agigarta, che ha sofferto la fame, si avvicinò per uccidere (il proprio) figlio, e non era contaminato dal peccato, poiché egli (solo) trovò un rimedio contro la morte per fame.

  1. Vamadeva, che ben conosceva la giustizia e l’ingiustizia, non macchiò sé stesso (la sua coscienza) quando, tormentato (dalla fame), desiderò mangiare la carne di un cane per salvare la propria vita.
  2. Bharadvaga, un esecutore di grandi austerità, accettò molte vacche dal falegname Bribu, quando era affamato insieme ai suoi figli in una foresta isolata.
  3. Visvamitra, che ben conosceva la giustizia e l’ingiustizia, si avvicinò, quando era tormentato dalla fame, (a mangiare) l’anca di un cane, ricevendola dalle mani di un Kandala (uomo di bassa casta).
  4. (Confrontando) tra accettare (doni da uomini di casta inferiore), compiere sacrifici (per loro), e istruirli, l’accettazione dei regali è il più spregevole (di tali atti) ed (il più) biasimevole per un bramino (a causa dei suoi risultati) nella prossima vita.”

(Le leggi di Manu, capitolo 10, versetti 105-109)

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Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 56

L’atteggiamento latitudinario (chi professa teorie religiose caratterizzate dalla tendenza a estendere la salvezza per il genere umano) di Manu è chiaro nel momento in cui riconosce la naturale tendenza del genere umano al consumo di carne, all’assunzione di bevande alcoliche e inebrianti, e al soddisfacimento delle relazioni sessuali, anche se la loro astensione comporta grandi ricompense:

“Non vi è alcun peccato nel mangiare carne, nel (bere) liquori inebrianti, e nel rapporto carnale, perché questo è il modo in cui gli esseri sono stati creati, ma la loro astensione comporta grandi ricompense.” (Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 56)

Fonte web: http://www.sacred-texts.com/hin/manu/manu05.htm

Egli sciolse più liberamente i vincoli quando disse:

“28. Il Signore delle creature (Pragapati) creò tutto questo (mondo per essere) il sostentamento dello spirito vitale; sia l’amovibile sia l’inamovibile (creazione è) il cibo dello spirito vitale.

  1. Ciò che manca di movimento è il cibo per coloro che sono dotati di locomozione; (gli animali) senza zanne (sono l’alimento) per quelli che hanno le zanne, quelli senza mani per coloro che posseggono le mani, e il timoroso per l’audace.
  2. Il mangiatore che divora giornalmente quelli destinati ad essere il suo alimento, non commette peccato; perché il creatore stesso creò sia i mangiatori sia coloro che devono essere mangiati (per quegli scopi speciali).” (Le leggi di Manu, capitolo 5, versetti 28-30).

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Le leggi di Manu, capitolo 10, versetto 63

Quest’ingiunzione rimuove tutte le restrizioni sul consumo di carne dando la piena libertà di ingerire carne animale, e giacché per Manu l’assunzione di manzo non è un tabù, si desume che non considerò la carne di vacca sacrosanta. Manu contraddice le sue asserzioni celebrando l’ahimsa:

“L’astensione dal ferire (le creature), la veridicità, l’astensione dall’appropriazione indebita (dei beni altrui), la purezza, e il controllo degli organi, Manu ha dichiarato che sia la sintesi della legge per le quattro caste” (Le leggi di Manu, capitolo 10, versetto 63),

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ma non v’è alcun dubbio che permise il consumo di carne almeno nelle occasioni rituali (madhuparka, sraddha, ecc…) quando l’uccisione della vacca e d’altri bovini, secondo il suo commentatore Medhatithi (9no secolo), fu in armonia con la pratica Vedica e post-Vedica (govyajamamsamaproksitambhaksyed… madhuparkovyakhyatah tatra govadhovihitah).[21]

Yajnavalkya (100-300 d.C.), al pari di Manu, tratta le norme riguardanti il cibo lecito ed illecito. Benché la sua trattazione riguardante questo soggetto sia meno dettagliata, sostanzialmente non differisce da quella di Manu. Yajnavalkya specifica gli animali (i cervi, le pecore, i caprini, i cinghiali, i rinoceronti, ecc…) e gli uccelli (ad esempio, la pernice) la cui carne potrebbe soddisfare i Manes (Pitris) (Yajnavalkya Smriti, I.258-61). A suo parere, ad uno studente, ad un insegnante, ad un re, ad uno stretto amico e ad un genero si dovrebbe offrire un arghya ogni anno, e ad un sacerdote si dovrebbe offrire un madhuparka in tutte le occasioni rituali. (op. cit, I.110). Inoltre, incoraggia vivamente di dare il benvenuto ad un bramino istruito (srotriya) offrendogli uno squisito alimento preparato con un gran bue o una capra (mahoksam va mahajam va srotriyayopakalpayet) insieme a dolci parole. Questo dato indica che approvava la pratica originaria di uccidere il bestiame bovino al ricevimento di ospiti illustri. Yajnavalkya, come Manu, permette l’ingestione di carne quando la vita è messa in pericolo, o quando si celebrano dei sacrifici e dei riti funerari (op. cit, i.179). La carne non consacrata (vrthamamsam, anupakrtamamsani), a suo avviso, è un tabù (op. cit, I.167, 171) e chi uccide gli animali col solo intento di nutrirsi senza rispettare la pratica Vedica è condannato all’inferno per un numero di giorni pari alla quantità di peli presenti sul corpo della vittima (op. cit, I.180). Allo stesso modo Brhaspati (300-500 d.C.), come Manu, raccomanda l’astensione dal liquore (madya), dalla carne (mamsa) e dai rapporti sessuali solo se non sono legittimamente consacrati[22], quest’esortazione implica che se furono resi leciti, furono permessi. I legislatori generalmente reputano legittimi tutti quei sacrifici, che, secondo loro, hanno la sanzione Vedica. La macellazione sacrificale degli animali e dei bovini addomesticati, come abbiamo visto, era una pratica Vedica e, pertanto, fu abbastanza comune tra i circoli Brahmanici durante i primi secoli Cristiani e nella tarda metà del primo millennio d.C. Comunque, sarebbe irrealistico supporre che il precetto dharmico di restringere la macellazione animale alle sole occasioni rituali, sia stata presa sempre sul serio dai bramini, i quali assegnavano alle ingiunzioni legali un significato, o da altre componenti della società.[23] Non sorprende, quindi, che Brhaspati, mentre discute dell’importanza delle usanze locali, abbia affermato che in Madhyadesa* gli artigiani mangino vacche (madhyadese karmakarah silpinasca gavasinah).[24]

(*La regione Jambudvipa fu conosciuta col nome di Majjhimadesa nei testi Buddhisti e Madhyadesa nei testi Puranici)

Mahabharata, Vana Parva o Aranyak Parva, Sezione 207

Le prove contenute nei poemi epici sono evidenti. La maggior parte dei personaggi del Mahabharata sono carnivori, essi lodano re Rantideva che fece macellare ogni giorno duemila vacche, la cui carne cucinata coi cereali era distribuita ai bramini (III.208.8-9)[25].

“Per la cucina del re Rantidev duemila animali furono macellati. Duemila vacche furono macellate ogni giorno; e, O migliore degli esseri rigenerati, il Re Rantideva acquisì una reputazione impareggiabile d’elargitore quotidiano di cibo e carne.” (Mahabharata, Vana Parva o Aranyak Parva, Sezione 207, pag. 431).

Fonte web: http://www.sacred-texts.com/hin/m03/m03207.htm

Rama nacque dopo il gran sacrificio compiuto da suo padre Dasaratha, che macellò un gran numero d’animali dichiarati commestibili dai Dharmasastra, i quali, come abbiamo visto, approvano la mattazione rituale delle vacche. Sita, moglie del re Ramachandra (Rama), mentre attraversa lo Yamuna assicura il consorte che l’avrebbe adorato con mille vacche ed un centinaio di vasi ricolmi di vino se Rama avesse assolto il suo voto. La sua predilezione per la carne di cervo spinge il marito ad uccidere Marici, un demone travestito da cervo. Bharadvaja dà il benvenuto a Rama macellando un grasso vitello in suo onore.[26]

Le pratiche dietetiche del non-vegetariano trovano un posto importante nei primi trattati medici Indiani, la cui cronologia coincide generalmente sia con quella dei libri giuridici di Manu e di Yajnavalkya, sia con i due poemi epici. Caraka (1mo-2do secolo), Susruta (3zo – 4to secolo) e Vagbhata (7mo secolo) forniscono una lista impressionante di pesci e di carni, e tutti e tre parlano degli usi terapeutici del manzo[27]. La continuità tradizionale di mangiare carne compresa quella bovina, è echeggiata nella prima letteratura secolare Indiana fino in tarda epoca. Nel periodo Gupta, Kalidasa allude alla storia di Rantideva che ogni giorno uccideva numerose vacche nella sua cucina.[28] Poco più di due secoli dopo, Bhavabhuti (700 d.C.) si riferisce a due casi d’ospitalità che hanno incluso la macellazione di una giovenca[29]. Nel 10mo secolo Rajasekhara cita la mattazione di un bue o di una capra in onore dell’ospite[30]. Nel 12mo secolo Sriharsa menziona una varietà di prelibatezze non-vegetariane servite ad una radiosa festa matrimoniale riferendosi a due casi interessanti d’abbattimento di vacca[31], sebbene, nello stesso secolo Somesvara mostri una chiara preferenza per la carne di maiale rispetto ad altri tipi di carne, e non menzioni per nulla il manzo.

IV

Mentre i suddetti riferimenti, anche se in numero limitato, indicano che l’antica pratica di macellare la vacca per scopi alimentari sia continuata pressapoco fino al dodicesimo secolo, è stato dimostrato nei commentari della letteratura kavya e nei primi testi del Dharmasastra che gli scrittori Brahmanici ne mantennero la memoria fino alla sua tarda epoca. Tra i commentatori della letteratura secolare, Candupandita (tardo 13mo secolo) del Gujarat, Narahari[32] (14mo secolo) del Telengana in Andhra Pradesh, e Mallinatha[33] (14mo-15mo secolo), i quali erano connessi al re Devaraya II di Vidyanagara (Vijayanagara), indicano chiaramente che, nei primi tempi, la vacca era sacrificata ritualisticamente e poi consumata. Alla fine del 18mo secolo, Ghanasyama, un ministro di Tanjore, dichiara che l’abbattimento della vacca in onore dell’ospite fu un’antica regola.[34]

Allo stesso modo, gli autori dei commentari del Dharmasastra e dei compendi religiosi posteriori al 9no secolo, mantengono vivo il ricordo dell’arcaica pratica di cibarsi di manzo, ed alcuni di loro consentono il consumo di manzo in circostanze specifiche. Per esempio, Medhatithi (9no secolo), probabilmente un bramino Kashmiro, asserì che un toro o un bue era ucciso in onore di un sovrano o di un qualsiasi onorevole individuo, e senza ambiguità, permise di mangiare la carne di vacca (govyajamamsam) nelle occasioni rituali[35]. Molti altri scrittori d’opere esegetiche sostengono questo punto di vista, sebbene alcune volte indirettamente. Visvarupa[36] (9no secolo), un bramino di Malwa e probabilmente un pupillo di Sankara; Vijnanesvara[37] (11mo secolo), che potrebbe aver vissuto non lontano da Kalyana nel moderno Karnataka; Haradatta[38] (12mo secolo), dell’India meridionale (daksinatya); Laksmidhara[39] (12mo secolo), un ministro del re Gahadwala; Hemadri[40] (tardo 13mo secolo), un ministro degli Yadavas di Devagiri; Narasimha/ Nrsimha[41] (14mo secolo), presumibilmente dell’India meridionale; e Mitra Misra[42] (17mo secolo) di Gopacala (moderna Gwalior); sostenevano che anticamente si praticasse la macellazione della vacca sia per il ricevimento d’ospiti, sia per la sraddha. Non più tardi dei primi anni del 20mo secolo, Madana Upadhyaya di Mithila, riferisce che la mattazione rituale del bestiame bovino da latte avveniva in passato.[43] Quindi, sebbene i commentatori del Dharmasastra disapprovassero l’uccisione della vacca, ammettono generalmente che era una pratica antica da evitare nell’età di kali.

V

La suddetta testimonianza indica che l’assunzione di manzo fu una pratica continua, mentre i legislatori cominciarono a scoraggiarla attorno alla metà del primo millennio, quando la società Indiana si feudalizzava gradualmente trasformando il suo tessuto socio-culturale. Questa fase di transizione, che è descritta innanzitutto nei brani epici e Puranici col nome di kaliyuga, ha visto molti cambiamenti e modificazioni delle norme e delle abitudini sociali. I testi religiosi Brahmanici iniziano adesso a discorrere di molte pratiche anteriori vietate nel kaliyuga, pratiche che sono conosciute come kalivarjya (le proibizioni dell’età di kali). Dato che il numero dei kalivarjya fu gonfiato col passare del tempo, la maggior parte dei testi pertinenti in materia cita la macellazione della vacca proibita nell’era di kali. Secondo alcuni dei primi legislatori medievali, non si poteva toccare l’assassino della mucca e s’incorreva nel peccato pure conversando con lui. Associarono sempre più la mattazione della vacca ed il consumo di manzo al moltiplicarsi delle caste intoccabili. Tuttavia, è interessante che alcuni tra loro considerino questi atti inferiori persino alle aberrazioni comportamentali consistenti nella pulizia dei denti eseguita con le dita, oppure a mangiare solo sale o sterco.[44]

Altrettanto interessante è che quasi tutti i testi normativi enumerino l’abbattimento della vacca tra i peccati minori (upapataka), e nessuno di essi lo definisce un reato grave (mahapataka). Inoltre, i testi Smrti (i testi della tradizione) forniscono delle facili via di fuga, prevedendo delle procedure espiatorie per i delitti intenzionali come pure per l’involontaria uccisione della mucca. Ciò implica che la macellazione del bestiame bovino non fu insolita nella società, cosicché le espiazioni furono prescritte solamente per scoraggiare il consumo di carne bovina. Fino a che punto le ingiunzioni Dharmasastriche siano state efficaci, tuttavia, rimane una questione speculativa; perché la possibilità che alcuni membri abbiano mangiato il manzo di nascosto non può essere esclusa. Non più tardi del 19mo secolo, Swami Vivekananda asserì di aver mangiato il manzo durante il suo soggiorno in America, benché difese con veemenza il suo gesto.[45] Allo stesso modo, all’inizio del ventesimo secolo, il Mahatma Gandhi si espresse sull’ipocrisia degli ortodossi Indù che “quando sono malati non esitano addirittura a chiedere al medico” del brodo di manzo….”[46] Tuttoggi le 72 comunità del Kerala, non tutte intoccabili forse, preferiscono il manzo al costoso montone e le forze dell’Hindutva le stanno persuadendo andandoci piano e con gentilezza.[47]

VI

Sebbene la macellazione della vacca ed il suo consumo siano stati considerati gradualmente un peccato ed una fonte di polluzione dal primo periodo medievale, la mucca e dei suoi prodotti (il latte, la cagliata, il burro chiarificato, lo sterco e l’urina) o la loro miscela denominata pancagavya avevano assunto un ruolo purificatore già da parecchio tempo. I testi Vedici comprovano l’uso rituale del latte di mucca e dei prodotti lattiero-caseari, mentre il termine pancagavya ricorre per la prima volta nei Dharmasutra di Baudhayana. I libri giuridici di Manu, Visnu, Vasistha, Yajnavalkya e quelli di parecchi legislatori posteriori come Atri, Devala e Parasara, menzionano l’utilizzo di una mistura composta di cinque prodotti della vacca per la purificazione e per l’espiazione. La maggior parte dei commenti e dei compendi religiosi appartenenti al periodo medioevale abbonda di riferimenti riguardanti il ruolo purificatore del pancagavya. Il presupposto fondamentale in tutti questi casi è che il pancagavya sia puro. Ma parecchi testi del Dharmasastra ne vietano l’uso da parte delle donne e dalle caste inferiori. Se un sudra beve il pancagavya, ci viene detto, va all’inferno.[48]

Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 125

È curioso che i testi normativi, i quali si riferiscono ripetutamente al ruolo purificatore della vacca, forniscano pure molte prove sul concetto di polluzione e d’impurità connesso a quest’animale. Secondo Manu il cibo fiutato dalla mucca deve essere purificato.

“Il (cibo) che è stato beccato dagli uccelli, annusato dalle vacche, toccato (col piede), starnutito sopra, o insozzato dai capelli o dagli insetti, diventa puro se è cosparso sopra di terra.” (Le leggi di Manu, capitolo 5, versetto 125)

Fonte web: http://www.sacred-texts.com/hin/manu/manu05.htm

Altri legislatori della prima ora come Visnu (Visnusmrti, XXIII.38) e Yajnavalkya (Yajnavalkyasmrti, I.189) esprimono delle opinioni simili. Quest’ultimo, infatti, afferma che la bocca della capra e del cavallo è pura, mentre quella della mucca non lo è. Fra i testi giuridici successivi, quelli di Angirasa, Parasara, Vyasa ecc… sostengono che la bocca della vacca è impura. Il legislatore Sankha dichiara categoricamente che tutte le membra della mucca sono pure, tranne la sua bocca. I commenti sui differenti testi del Dharmasastra ribadiscono la nozione secondo cui la bocca della vacca è impura. Tutto questo è in contrasto con le idee sul ruolo purificatore della mucca.

Inutile dire, poi, che l’immagine della vacca proiettata dalle tradizioni testuali Indiane, specialmente dalle opere Brahmaniche e Dharmasastriche, è stata nel corso dei secoli polimorfica. La sua storia attraverso i millenni è piena di contraddizioni, e non sempre si è conformata alle pratiche dietetiche prevalenti nella società. Essa fu uccisa, ma l’omicidio non fu fatale. Se non era trucidata, è sufficiente ricordare la vecchia pratica di macellare che soddisfaceva i bramini. I relativi cinque prodotti includenti le feci e l’urina erano puri, ma per la sua bocca non fu così. È col peso di quest’atteggiamenti incongrui, paradossali e sconcertanti, che la vacca Indiana ha lottato per sostenere il suo mito di santità. Ma la sua santità è elusiva. Perché non esiste una vacca-dea, né alcun tempio in suo onore.[49] Ciononostante la venerazione per quest’animale è divenuta nel presente periodo un tratto caratteristico dell’inesistente monolitico “Induismo” sbandierato dalle forze dell’Hindutva.

Note

[1] L.L. Sundara Ram, Cow Protection in India, The South Indian Humanitarian League, George Town, Madras, 1027, pp.122-123, 179-190.

[2] Siva Digvijaya quoted in Sundara Ram, op. cit. p.191.

[3] Sandria B. Freitag, “Contesting in Public: Colonial Legacies and Contemporary Communalism”, in David Ludden, ed., Making India Hindu, Delhi: Oxford University Press, 1996, p.217.

[4] Idem, Collective Action and Community: Public Arena and the Emergence of Communalism in North India, Delhi: Oxford University Press, 1990, Chapter 6; Gyan Pandey, ‘Rallying round the Cow’, in Subaltern Studies, Vol.. II, Ranajit Guha, (ed.), Delhi: Oxford University Press, 1983, pp. 60- 129.

[5] Frederick J. Simoons, “Questions in the Sacred-Cow Controversy”, Current Anthropology, 20(3), September 1979, p.468.

[6] The Times of India, 28 May 1999, p.12.

[7] Frontline, 13 April 2001.

[8] Rajesh Ramachandran, “A Crisis of Identity”, The Hindustan Times, 7 May 2000.

[9] W. Crooke, The Popular Religion and Folklore of Northern India, 2 Vols, Delhi: 4th reprint, Munshiram Manoharlal, 1978.

[10] W. Crooke, ‘The Veneration of the Cow in India’, Folklore, 13 (1912), pp.275-306.

[11] Sundara Ram, Cow Protection in India, Madras: The South Indian Humanitarian League, 1927, p.8, passim.

[12] H.D. Sankalia, “ (The Cow) In History”, Seminar No. 93, May 1967.

[13] “Was the Cow Killed in Ancient India?” Quest, (75), March- April 1972, pp. 83-87.

[14] J.C. Heesterman translates a passage of the Kathaka Samhita (8.7:90.10) relating to the agnadheya as: ‘they kill a cow, they play a dice for [shares in] her, they serve her up to those seated in the assembly hall’: Broken World of Sacrifice, Chicago: University of Chicago Press, 1993, p.283, note 33.

[15] Louis Renou, Vedic India, Varanasi, reprint, Indological Book House, 1971 p.109.

[16] R.L. Mitra, Indo-Aryans: Contributions to the Elucidation of Ancient and Medieval History, 2 Vols, Varanasi: reprint, Indological Book House, 1969, p.363.

[17] A.B. Keith, Religion and Philosophy of the Veda and Upanisads, Delhi: Indian reprint, Motilal Banarsidass, 1970, p.324; P.V. Kane, History of Dharmasastra, II, pt.2, Chapter XXXII.

[18] J. C. Heesterman, op.cit., pp. 190-93, 200-02.

[19] For different views see Hanns-Peter Schmidt, ‘Ahimsa and Rebirth’ in Inside The Texts Beyond The Texts: New Approaches to the Study of the Vedas, M. Witzel (ed.), Cambridge, Massachusetts, 1997, pp. 209-10; Cf. J.C. Heesterman, ‘Vratya and Sacrifice’, Indo-Iranian Journal, 6 (1962), pp. 1-37.

[20] William Norman Brown, ‘The Sanctity of Cow in Hinduism’, Madras University Journal, 27.2 (1957), pp. 29-49.

[21] Medhatithi on Manu, V.27, 41 see Manava-Dharma-Sastra, ed., V.N. Mandalik, Bombay, 1886, pp.604, 613.

[22] Brhaspatismrti cited in Krtyakalpataru of Laksmidhara, trtiyabhaga, ed., K.V. Rangaswami Aiyangar, Baroda Oriental Institute, Baroda,1950, p.326

[23] Contra Francis Zimmermann (The Jungle and the Aroma of Meats, Berkeley: University of California Press, 1987, p.180ff) asserts that only consecrated meat was eaten and Hanns Peter Schmidt seems to be in agreement with him (‘Ahimsa and Rebirth’, op.cit., p.209). But the evidence from the Buddhist Jatakas, Kautilya’s Arthasastra, and Asokan inscriptions etc does not support this view.

[24] Brhaspatismrti, 128b, Gaekwad Oriental Series, Baroda, 1941.

[25] For further references see S. Sorensen, An Index to the Names in the Mahabharata, Delhi: Motilal Banarsidas, 1963, pp.593-94.

[26] R. L. Mitra, op.cit., vol.I, p. 396.

[27] Caraka Samhita: Sutrasthanam, II.31, XXVII.79: Susruta Samhita: Sarirasthanam, III.25; Astanga Hrdayam: Sutrasthanam, VI.65.

[28] Meghaduta, with the commentary of Mallinatha, ed. and tr., M. R. Kale (ed. & tr.), Delhi: Motilal Banarsidass, Delhi, 1979, I.48.

[29] Mahaviracarita, Rampratap Tripathi Shastri (ed. with Hindi tr.), Allahabad: Lok Bharati Prakashan, 1973. III.2. Uttararamacarita, with notes and the commentary of Ghanasyama, P.V. Kane and C. N. Joshi (ed. and tr.), Delhi: Motilal Banarsidass, 1962, Act IV.

[30] Balaramayana, of Rajasekhara, Ganagasagar Rai (ed.) Varanasi: Chowkhamba, 1984. I.38a

[31] Naisadhamahakavyam, with the commentary of Mallinatha, Haragovind Shastri (ed.) Varanasi, Chowkhamba, 1981 XVII.173, 197.

[32] Naisadhacarita of Sri Harsa, K.K. Handiqui (tr. with commentaries), Poona, Deccan College, 1965, p.472.

[33] Naisadhamahakavyam, p. 1137.

[34] Meghaduta, Kale’s edn, p.83.

[35] Medhatithi on Manu, V.26-7,41. See Manava-Dharma-Sastra (with the commentaries of Medhatithi, Sarvajnanarayana, Kulluka, Nandana and Ramacandra), V. N. Mandalika (ed.), Bombay: Ganpat Krishnaji’s Press, 1886, pp.604, 613.

[36] Visvarupa on Yajnavalkya, I. 108. See Yajnavalkyasmrti (with the commentary Balakrida of Visvarupacarya), Mahamahopadhyaya T. Ganapati Sastri (ed.), Delhi: 2nd edn, Munshiram Manoharlal, 1982, p.97.

[37] Mitaksara on Yajnavalkya, I. 108. See Yajnavalkyasmrti with Vijnanesvara’s Mitaksara, Gangasagar Rai (ed.), Delhi; Chowkhamba Sanskrit Pratisthan, 1998, p.54.

[38] Haradatta on Gautama, XVII.30.

[39] Krtyakalpataru, Niyatakalakandam, trtiyabhagam, K.V. Rangaswami Aiyangar (ed.), Baroda: Oriental Research Institute, 1950, p.190

[40] P. V. Kane, History of Dharmasastra, III, Poona: Bhandarkar Oriental Research Institute, 1973, p.929.

[41] R. L. Mitra, op.cit., p.384.

[42] Mitra Misra on Yajnavalkya, I. 108.

[43] Palapiyusalata Gourisayantralaya, Darbhanga, Samvat 1951.

[44] Atrismrti, verse 314 in Astadasasmrtyah (with Hindi tr by Sundarlal Tripathi, Khemraj Shrikrishnadas, Venkateshwar Steam Press, Bombay, Saka 1846.

[45] Romain Rolland, The Life of Vivekanada and the Universal Gospel, Advaita Ashrama, Calcutta, Eleventh Impression, August 1988, p.44 fn. 3.

[46] M. K. Gandhi, An Autobiography or The Story of My Experiments with Truth, Navajivan Trust, Ahmedabad, 1927, reprint 2000, p.324. Gandhi saw a five-footed “miraculous” cow at the Kumbha Mela at Allahabad in 1915, the fifth foot being nothing but “a foot cut off from a live calf and grafted upon the shoulder of the cow” which attracted the lavish charity of the ignorant Hindu (ibid., p.325).

[47] India Today, 15 April 1993, p.72.

[48] Visnusmrti, LIV.7; Atrismriti, verse 297, etc.

[49] A.L. Basham, The Wonder That Was India, Delhi, Rupa & Co., 27th Impression, 1996, p.319.

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