Yoga Buddhista e Sufi-Sciismo in Afghanistan e Asia centrale

Yoga Buddhista e Sufi-Sciismo in Afghanistan e Asia centrale

Con l’avvento dell’Islam nel settimo e nell’ottavo secolo, gli elementi Buddhisti preesistenti nel mondo Iraniano, che condividevano la cultura con l’Afghanistan e l’Asia centrale, subirono un sostanziale adattamento storico. Contemporaneamente, anche gli elementi Buddhisti hanno avuto un impatto sulla cultura Islamica emergente. Il tredicesimo e il quattordicesimo secolo rappresentarono quel periodo di formazione e di integrazione tra il Buddhismo residuo e il Sufismo. In particolare, furono gli Sheikh Simnani e Hamadani le due personalità che maggiormente contribuirono nell’era Mongola alle interazioni Sufi-Buddhiste del tredicesimo e quattordicesimo secolo.

Lo Yoga a Kabul, capitale dell’Afghanistan

Amir Seyyid ‘Ali Hamadani (1314–1384) attirò molti discepoli non Musulmani. Molti Buddhisti provenivano dalle aree del Baltistan, del Kashmir, del Ladakh e dell’Asia Centrale. Il Buddhismo non era una dottrina estranea allo Sheikh Hamadani. Non solo attirò gli Indù e i Buddhisti delle regioni che aveva attraversato, ma interpretò alcuni dei concetti spirituali Buddhisti e Vedantici nel libro “Asrar al-Nuqta” (I segreti del punto). Introdusse uno Yoga e un pranayama (gli esercizi di respirazione) particolari che unendosi al sé nascosto formano un Sufismo ibrido. Insegnò che lunghi esercizi respiratori conducono il praticante a uno stadio intellettivo, percettivo e intermedio tra il corpo e la mente, e infine attraverso questi esercizi il passaggio a fasi successive porterebbe alla grande scoperta della luce interiore.

Hamadani non era un tipico Sufi, ma un maestro innovativo che non evitò di riaffermare i concetti Indù-Buddhisti di karma e reincarnazione nella sua stessa terminologia. Per lui l’obiettivo di reincarnarsi o di tornare ripetutamente in questo mondo di apparenze è quello di purificare il proprio karma. Una vita reincarnata in cui si compiono azioni nobili e morali porterebbe a sperimentare il paradiso in terra, e attraverso questa ascesa spirituale si sperimenterebbe anche ciò che Hamadani chiama qiyamat (risurrezione), o allegoricamente, il risveglio. (Hamadani, Asrar al-Nuqta, pag. 45–62).

I Sufi praticano l’habs-i nafas, una respirazione che manipola o trattiene il respiro, e bilancia l’energia e la coscienza del corpo. Essa è simile al pranayama Indù-Buddhista. La combinazione di Yoga, postura, mantra e tecniche respiratorie come parte del sistema tantrico aveva lo scopo di portare un’energia cosmica o divina nel corpo mondano col fine di conseguire la realizzazione. Le pratiche respiratorie divennero tra i Sufi Naqshbandi una delle attività principali del XIV secolo.

I praticanti del Buddhismo Tibetano Mahayana combinavano il concetto di bodhisattva con lo Yoga, un concetto che fu anche introdotto da Jabir ibn Hayyan (721-815). Le pratiche Yogiche di Jabir di stare seduti dritti o talvolta seduti in posizione a palla, combinando specifiche pratiche tantriche di respirazione (pranayama) con lo zikr o il mantra, insieme a campi visivi purificanti senza immagini visualizzate e creando un’unità ininterrotta di corpo, parola e mente indistinguibili l’uno dall’altro, avrebbero dovuto liberare la persona da tutte le malattie e offrire così una sorta di assenza di morte.

Il potere di Jabir nelle scienze esoteriche mirava non solo a realizzare una trasformazione spirituale e una felicità inesauribile nella propria vita, ma anche, attraverso la manipolazione della fisiologia, a raggiungere l’immortalità. A tal fine, Jabir vedeva nell’addestramento della coscienza immatura un esercizio indispensabile. Per ottenere l’immortalità, lo Yogi deve praticare almeno sei mesi di meditazione e di pranayama usando le dita per chiudere le orecchie, gli occhi, le narici e la bocca per afferrare il vento e per controllare il fuoco che fa circolare il vento nella zona della testa.

Combinate con la danza e il canto, tali pratiche potenziano l’intelletto debole e in breve tempo avvengono molte meraviglie spirituali ed emotive, secondo Jabir. Le pratiche prescritte da Jabir erano progettate per adattare la fisiologia ad un livello diverso con la manipolazione dei gas e del metabolismo, che in modo circolare interesserebbero la mente, ponendola in condizione di controllare alcune brame fisiche e mentali nel corpo – uno stato del corpo e della mente che sconfiggerebbe un sacco di tossine e di demoni.

L’intelletto e l’anima sono componenti da affinare per ridurre i danni al sistema prima della morte. Così gli Yogi tantrici Tibetani chiamavano Jabir lo “Yogi immortale”, che non solo era un guaritore, ma era anche percepito come un bodhisattva venuto a risvegliare gli altri. La sua nozione di immortalità avrebbe potuto benissimo essere compatibile e in linea con il nirvana Buddhista e con il parinirvana — cessando di esistere nella dimora temporanea del corpo e del mondo materiale.

Questo racconto Buddhista di Jabir suggerisce la necessità di rivedere e rivalutare le versioni esistenti della sua carriera e la sua posizione per eliminarle da ogni pregiudizio. Il compito fondamentale di portare alla luce gli elementi Buddhisti sepolti in relazione agli studiosi medievali come Jabir è un mezzo per visualizzare gli aspetti panoramici delle interazioni culturali in un contesto geografico e storico ragionevole. Inoltre, la ricerca scientifica e spirituale di Jabir nel Khurasan e la sua associazione con la famiglia Barmecidi sono accenni di interscambi tra il Buddhismo e la giovane religione Islamica. Nella formazione delle nuove scienze e della spiritualità nel primo periodo Islamico Jabir ha giocato un ruolo chiave, con idee che possono essere nate da fonti Buddhiste o da altre fonti Indiane. È anche concepibile che l’ammirazione dei Tibetani per Jabir li abbia portati a collegarlo al Buddhismo, un’affermazione che dopo tutto può avere qualche fondamento storico.

In ultima analisi, l’insegnamento del Buddha ha sicuramente trovato un posto speciale nella cultura religiosa e letteraria dell’Iran, del Sufismo e dell’Islam. Yahya Barmak, braccio destro del califfo Harun al-Rashid di Baghdad aveva un interesse personale per il suo Buddhismo ancestrale.

L’Arabizzazione, la Persianizzazione e l’Islamizzazione della personalità e della vita del Buddha hanno permesso che l’uso della sua leggenda da parte degli autori Musulmani sia rimasta fino a poco tempo fa in gran parte sconosciuta. Tuttavia, il “Bilawahr wa Budasaf” è diventato la fonte del passaggio della saggezza e dell’ascesi Buddhista alla cultura Islamica.

La leggenda del Buddha penetrò nelle società Islamiche attraverso la traduzione e la paternità di varie personalità letterarie e teologiche. I primi autori Islamici di questo racconto hanno lasciato una celata impronta Buddhista nella letteratura Araba Islamica e nella tradizione letteraria e teologica Sciita e Persiana. La presentazione di questa leggenda Buddhista ha coinvolto in modo particolare i circoli religiosi e letterari Iraniani in una combinazione spirituale Buddhista. Nei circoli Sciiti Iraniani, la leggenda del Buddha apparve nelle opere datate del X secolo di Ibn Babuya di Qum, noto anche come Sheikh Saduq. Ibn Babuya trasmise la storia del Buddha che gli era pervenuta dai traduttori Arabi. Dopo 700 anni il teologo Sciita Iraniano Mullah Muhammad Baqir Majlisi riprese questa leggenda. È sorprendente e scioccante che Majlis, un grande teologo Sciita, abbia narrato la storia del Buddha. Majlis però non immaginava l’origine Buddhista di questa storia, altrimenti l’avrebbe completamente Islamizzata.

Lo studioso Persiano Mehdi Aminrazavi (1957- ) conferma che “l’approccio di Omar Khayyam è fondamentalmente Buddhista. . . poiché la sua soluzione del problema della sofferenza è sorprendentemente simile al percorso Buddhista. L’astensione di Khayyam dall’eccesso, la sua sospensione delle speculazioni metafisiche e la rinuncia allo sforzo di risolvere il mistero della Creazione, la sua rinuncia alla sofferenza indipendente da Dio, il tutto senza denunciare il mondo, richiamano alle Quattro Nobili Verità del Buddha.

Lo storico Iraniano Sciita dell’epoca Timuride Ahmad Qazi Nasrollah Tatavi nella sua opera “Tarikh-i Alfi” (trad. “Storia millenaria”) in 8 volumi dichiara che Omar Khayyam credeva nella reincarnazione.1

Il senso dello Yoga Buddhista pervade la poesia di Omar Khayyam:

“Su, dal Centro della Terra attraverso il VII Cancello

Mi elevai e sul Trono di Saturno sedetti” (Quartina 31)

Da questo e da qualche altro verso del Rubʿayyat di Omar Khayyam risulta chiaro che conosceva e praticava lo Yoga. Egli chiarisce che gli stati spirituali che ha sperimentato non gli sono esclusivi, ma disponibili per coloro che si sforzano di attraversare i sette cancelli del risveglio interiore finché uniscono le loro anime a Dio disseppellendo il mistero della vita e della morte.

 

Note

  1. Sul credo nella reincarnazione di Omar Khayyam anche: “Idries Shah, I Sufi: la tradizione spirituale del sufismo, pag. 160, Edizioni Mediterranee”

 

Bibliografia

Mostafa Vaziri, Buddhism in Iran: An Anthropological Approach to Traces and Influences

http://news.armanin.ir/fa/content/18186953/تصاویری-از-تمرین-یوگا-توسط-زنان-افغان.html

Yogananda Paramhansa, Il rubaiyat di Omar Khayyam, Il Punto d’Incontro, 1995

Michael Walter, Jābir, the buddhist yogi, Part one

Michael Walter, Jābir, the buddhist yogi, Part two

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