Islam e Yoga Tibetano

Il Dalai Lama offre preghiere nella moschea Chuchot Yokma Imam Bargah

Moschea del distretto di Gangche, Gilgit, Baltistan, con elaborati lavori in legno. Una colonna di svastiche (Yungdrung) è visibile sul lato destro del soffitto.

CENNI STORICI

In Tibet sono sempre esistite sacche di popolazione di religione Musulmana, anche se le informazioni sui Musulmani Tibetani sono, infatti, assai scarse. Il mondo Islamico conosceva tuttavia il Tibet fin dall’inizio della propria storia scritta. Storici arabi, quali Yaqut Hamawi, Ibn Khaldun e Tabari menzionano il Tibet nelle loro opere. Nel suo libro “Kitab Mu’jamu-l-Buldan” (L’Enciclopedia dei Paesi), Yaqut ibn Abd Allah al-Hamawi (1179-1229) cita il paese chiamandolo in tre modi diversi: Tabbat, Tibet e Tubbet. Il Kashmir e il Turkestan Orientale sono le nazioni Islamiche più vicine ai confini Tibetani. Si ritiene che i primi Musulmani ad entrare in Tibet, attorno al XII secolo, provenissero dal Ladak e dal Kashmir, terra che gli antichi testi Tibetani chiamano “Khache Yul”: non a caso i Tibetani si riferiscono ai Musulmani col termine “Khache”.

Lentamente, in virtù dei legami matrimoniali e dell’interazione sociale, la popolazione di religione Islamica andò aumentando e una prima comunità di considerevole importanza numerica si stabilì nelle vicinanze di Lhasa, la capitale Tibetana. Dopo il loro insediamento, i Musulmani costruirono moschee in molte città del Tibet. C’erano quattro moschee a Lhasa, due a Shigatse e una a Tsethang, costruite secondo lo stile architettonico Tibetano.

I Tibetani Musulmani vivevano soprattutto nelle adiacenze delle moschee, divenute il centro della loro vita sociale. Il V Dalai Lama (1617-1682) ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione delle comunità Musulmane all’interno del Buddismo Tibetano. Emanò, infatti, un decreto che garantiva ai Tibetani di religione Islamica speciali privilegi di cui fruirono fino all’occupazione Cinese del Tibet nel 1959. Secondo quanto sancito dall’atto: i Musulmani potevano gestire i propri affari in totale indipendenza, in accordo alle leggi della Sharia. Era loro consentito di eleggere uno speciale comitato, composto di cinque membri e conosciuto come “Ponj” (similmente in Urdu e in Hindi, Panch significa cinque), per tutelare i propri interessi. Erano liberi di intraprendere attività economiche ed erano esentati dal pagare le tasse. Era loro concesso di non rispettare il divieto di non mangiare carne durante il mese di Sakadawa, considerato sacro dalla dottrina Buddista. Erano esentati dal togliersi il cappello, in segno di rispetto, dinanzi ai monaci Buddisti durante il periodo annuale di governo della città in cui si celebrava la grande preghiera di Monlam (si tiene il venticinquesimo giorno del primo mese lunare). Avevano diritto a propri cimiteri. Nelle vicinanze di Lhasa ne esistevano due: uno al Gyanda Linka, a circa dodici chilometri dal centro urbano, e un secondo a Kygasha, distante circa quindici chilometri. Una parte del Gyanda Linka fu, in epoca successiva, trasformata in un giardino, e divenne il luogo in cui la comunità Musulmana si radunava in occasione dei più importanti eventi pubblici. Sembra che all’interno del Gyanda Linka vi siano numerose tombe senza nome, probabilmente quelle degli stranieri venuti a predicare l’Islam in Tibet.

L’apertura delle madrase

Con il crescere della comunità, furono aperte le madrase (scuole di primo livello) destinate all’insegnamento dell’Islam, del Corano e delle preghiere (namaz). Tra le materie di studio figurava anche la lingua Urdu. C’erano due madrase a Lhasa e una a Shigatse. Terminato il ciclo scolastico nelle madrase, gli studenti erano mandati in India per proseguire gli studi presso gli istituti Islamici superiori quali il “Darul-Ulum” a Deoband, il “Nadwatul-Ulema” a Lucknow, e il “Jamia Millia Islamica” a New Delhi. Il rapporto annuale del “Darul-Ulum” per l’anno 1875 fa menzione della presenza di due studenti stranieri: un birmano e un Tibetano. Il “Jamia Millia Islamica” ospitò il primo gruppo di studenti Tibetani nel 1945. A quei tempi, all’interno del Tibet la rete stradale e i trasporti erano poco sviluppati. Gli studenti andavano all’estero al seguito dei mercanti, in occasione dei loro periodici viaggi di lavoro in India. Il trasferimento durava mesi e i ragazzi si muovevano a piedi, a cavallo o a dorso di yak per gran parte del tragitto. Per questo motivo, se uno scolaro era ammesso in un istituto superiore indiano non faceva più ritorno a casa fino a quando non aveva completato l’intero ciclo della sua istruzione scolastica.

Faidhullah, traduttore del “Golestan” e del “Bostan”

Pochissimi erano gli studenti che riuscivano a completare i loro studi in India e a conseguire il diploma in lingua araba, urdu e persiana. Il più famoso fu Faidhullah, che portò a termine la difficile impresa di tradurre in Tibetano il “Golestan” e il “Bostan”, i poemi in lingua persiana dello Sheikh Sa’di. Faidhullah è molto noto tra i Tibetani per il suo libro di aforismi “Khache Phalu” (“Alcuni Suggerimenti da parte di un Musulmano”), ancor oggi citato dai Tibetani a sostegno delle loro tesi in caso di dispute civili. Il “Khache Phalu” è stato tradotto in inglese da Dawa Norbu e pubblicato dalla Biblioteca delle Opere e degli Archivi Tibetani.

Federazione degli studenti del Baltistan

Il genere musicale Nangma

I Musulmani Tibetani hanno fornito importanti contributi alla cultura del loro paese, in particolare nel campo della musica. Si ritiene che il genere musicale Nangma, un classico della musica popolare Tibetana, sia stato introdotto in Tibet dai Musulmani. Ne è prova il fatto che il termine Nangma deriva dal vocabolo urdu Naghma, che significa “canzone”. Questi brani musicali, in gran voga in Tibet dall’inizio del secolo scorso e sulle labbra di tutti, vantano autori d’eccezione quali Acha Izzat, Bhai Akbar-la e Oulam Mehdi.

L’esilio

Nel 1959, dopo l’insurrezione di Lhasa, il Dalai Lama fu costretto all’esilio e riparò in India seguito da un rilevante numero di Tibetani. Ma la maggior parte dei Tibetani di religione Musulmana riuscì a lasciare il paese solo un anno più tardi. Nel frattempo, come accadde ai loro compatrioti Buddisti, le forze d’occupazione inflissero loro ogni sorta di violenza, repressione e crudeltà. In quel difficile anno, i Tibetani Musulmani cercarono di organizzarsi. Contattarono la missione indiana a Lhasa, e giacché originariamente provenienti dal Kashmir, chiesero che fosse loro riconosciuta la cittadinanza indiana. All’epoca, il capo della comunità Islamica, Haji Habibullah, era detenuto nelle carceri Cinesi assieme ad altri leader Musulmani. Tutti erano accusati di vari reati, quali l’affissione di manifesti antiCinesi o la frequentazione di esponenti della dirigenza Tibetana. In un primo tempo la risposta del governo indiano fu alquanto tiepida, ma improvvisamente, alla fine del 1959, New Delhi dichiarò che tutti i Tibetani Musulmani avevano diritto di cittadinanza.

Le autorità Cinesi tentarono di abbindolare i Musulmani promettendo loro la concessione del permesso d’emigrazione a patto che vendessero al governo ogni proprietà. Vedendo in questa scappatoia l’unica opportunità per salvare la propria cultura e religione, molti Islamici, volontariamente, rinunciarono ai loro beni. I Cinesi, non solo vennero meno alla parola data, ma organizzarono una vera e propria campagna di boicottaggio vietando a tutti i Tibetani Buddisti la vendita di cibo ai Musulmani. I più anziani e deboli, assieme a molti bambini, morirono di fame.

Tra il 1961 e il 1964, i Musulmani che riuscirono a valicare il confine indiano e a raggiungere le vicine città di Kalimpong, Darjeeling e Gangtok, si trasferirono gradualmente in Kashmir, loro terra d’origine. Il governo indiano li ospitò in tre grandi edifici a Idd-Gah, nei pressi di Srinagar, la capitale. Il Dalai Lama inviò a Idd-Gah il proprio Rappresentante con il compito di verificare le condizioni di vita esistenti nel nuovo insediamento. Nel corso dei primi vent’anni d’esilio i Tibetani Musulmani cercarono di ricostituire la loro comunità e di riorganizzarsi ma, privi di una guida e di un capo, incontrarono molte difficoltà. Inoltre, il centro di Idd-Gah si rivelò del tutto inadeguato. Iniziarono quindi a disperdersi e ad emigrare in vari paesi, soprattutto in Arabia Saudita, in Turchia e in Nepal. Alcuni, alla ricerca di migliori opportunità di vita, si diressero verso altre zone dell’India.

Il Dalai Lama continuò però a tenersi informato sulla situazione dei Tibetani residenti a Idd-Gah. Quando, nel 1975, visitò Srinagar, sollevò il problema dei connazionali con il Primo Ministro dello stato di Jammu e Kashmir. In seguito all’interessamento personale del leader Tibetano, il Primo Ministro concesse alla comunità Musulmana un pezzo di terra sulla quale stabilirsi. Il Dalai Lama si adoperò inoltre per la creazione di un’Associazione per l’Assistenza ai rifugiati Tibetani Musulmani. Grazie ad una donazione iniziale del Dalai Lama, e ad un aiuto proveniente dal Tibet Fund di New York, furono aperti un centro d’artigianato, una cooperativa e una scuola. I Tibetani Musulmani furono invitati a Dharamsala per apprendere le tecniche di tessitura dei tappeti. Il Dipartimento della Salute istituì un centro di assistenza per venire incontro alle loro necessità mediche. Successivi finanziamenti da parte dell’Arabia Saudita consentirono la costruzione di 144 case e di una moschea. I lavori terminarono nel 1985. Esiste oggi un’Associazione della Gioventù Tibetana Musulmana che svolge un importante ruolo nella vita sociale della comunità ed opera in stretto contatto con il Congresso della Gioventù Tibetana.

In questo momento, i Tibetani Musulmani all’interno del Tibet dovrebbero essere circa tremila, ma non si hanno notizie certe sulla loro situazione. Al di fuori del Tibet la comunità conta circa duemila persone. Alcune famiglie vivono nei paesi del Golfo, in Turchia e in Nepal. Cinquanta risiedono nelle aree di Darjeeling e Kalimpong, vicine ai confini orientali dell’India.

L’afflusso principale di immigrati Musulmani provenienti dal Kashmir e dal Ladakh in Tibet si ebbe verso la metà del 17 secolo sotto il Regno del Quinto Dalai Lama. La ragione principale di questo flusso migratorio fu la carestia diffusa nel Nord dell’India.

Conformemente al trattato di Pace Ladakhi-Tibetano del 1684, il governo del Tibet permise alle delegazioni commerciali del Ladakh di venire a Lhasa ogni tre anni. Questo continuò anche quando il Tibet fu chiuso agli altri stranieri. Numerosi commercianti Musulmani del Kashmir e del Ladakh che accompagnavano queste delegazioni rimasero in Tibet, e riunendosi alle comunità stanziali, continuarono ad avere rapporti economici coi loro paesi di origine. Quando Prithivinarayan Shah li esplulse dal Nepal dopo la conquista della Valle di Kathmandu nel 1769, molti emigrarono in Tibet. Dopo il Trattato Tibetano-Nepalese del 1856, ricominciarono i rapporti commerciali con il Nepal e l’India.

Nel 1841, l’armata della dinastia Dogra del Kashmir invase il Tibet. Dopo la loro sconfitta, molti soldati Musulmani del Kashmir e del Ladakh che furono presi prigionieri, scelsero di non tornare indietro. Ugualmente i prigionieri di religione indù scelsero di restare in Tibet ed abbracciarono l’Islam. Introdussero la coltivazione delle albicocche e delle mele nel paese.

Fin dal diciassettesimo secolo, i Musulmani Cinesi di etnia Hui provenienti da altre regioni della Cina si stabilirono nelle provincie del Amdo, nel Tibet nordorientale. Sposarono donne Tibetane e commerciarono tra la Cina e il Tibet Centrale. Un certo numero di loro si stabilì successivamente a Lhasa, dove formarono una comunità Musulmana separata con una propria moschea e un cimitero. La situazione cambiò significativamente sotto la Repubblica Popolare Cinese.

I Musulmani Tibetani affrontarono le stesse persecuzioni dei Buddisti. La maggior parte delle città dell’Amdo, sono adesso occupate in primo luogo da Musulmani Cinesi di etnia di Hui, mentre i Tibetani locali sono stati marginalizzati sulle praterie delle alte steppe. Un gran numero di commercianti Hui si stabilirono nel Tibet Centrale. Diversamente dai Musulmani Tibetani, non si integrano con la popolazione locale, ma piuttosto mantengono la lingua ed i costumi Cinesi.

Un discorso diverso vale per gli Hui Tibetani. I cosiddetti Hui Tibetani di Lhasa parlano Tibetano, vestono abiti Tibetani, e pregano in una moschea decorata con motivi tradizionali e tappeti Tibetani. Lo studioso Bo Chen nota che i Tibetani Hui che sono nati dai matrimoni tra le donne Tibetane e i Musulmani Cinesi Hui sono accettati di buon grado a Lhasa, dove sono considerati un gruppo a sé con una loro storia e identità.

Lhasa-Khazi o Tibetani Musulmani

Una persona è definita Musulmano Tibetano, o in Tibet, un “Lhasa-Khazi”, qualche volta, “Beoba-Khazi”, colui la cui famiglia vive in Tibet. La sua madrelingua è il Tibetano, ed è culturalmente integrato nella società Tibetana Buddista. Etnicamente, la maggior parte delle famiglie Tibetane Musulmane appartiene al ceppo Mongoloide. Tutti i Musulmani del profondo Tibet sono Sunniti.

Video - Baltistan Students Federation (BSF)

I Musulmani Tibetani si differenziano dai Musulmani Cinesi di etnia Hui, conosciuti come Hui, dagli Habalingka (montanari delle montagne di Haba) e dai Musulmani originari del Ladakh. Gli ultimi due gruppi hanno una loro identità, cultura, e origine. Si deve specificare che i Musulmani del Ladakh e i musulmani del Tibet hanno molte cose in comune, anche se la differenza resta in alcune aree. In poche parole, la comunità Islamica Tibetana può essere suddivisa in tre sottogruppi: la Kashmiri-Tibetana, i Singba-Khazi (prigionieri dell’armata di Zorawar Singh e convertiti all’Islam) e un gruppo di origine centro asiatica.

I Musulmani del Tibet sono compresi tra l’uno e il due percento della popolazione del Tibet attuale. Pur essendo dei pii praticanti musulmani, sono perfettamente integrati nella società Tibetana. Nel campo letterario e musicale il loro contributo è pienamente riconosciuto. Celebrano le feste Islamiche alla maniera Tibetana. I matrimoni avvengono nel rispetto della legge religiosa dell’Islam, ma con la gaiezza e l’allegria tipica Tibetana. Per esempio, un matrimonio è seguito da tre giorni di festa come nel costume Tibetano. La proibizione dell’uso dell’alcool è strettamente osservata. Nel Kashmir Pakistano esistono due cospicue comunità Islamiche di lingua Tibetana: i Balti e i Burig.

Oggi ci sono due Moschee a Lhasa, una grande e una piccola. La Moschea principale, costruita nel diciottesimo secolo, è situata nell’area di Hebalin, a sudest della vecchia Lhasa. È anche chiamata Moschea Hebalin. La moschea piccola fu costruita nel 1920 da commercianti immigrati.

Svastiche sul soffitto di una moschea in Baltistan

INTERAZIONI CULTURALI

Seppur alcuni studi hanno cominciato a rivelare le relazioni economiche e politiche esistite tra il Tibet ed il mondo Islamico, l’aspetto culturale e spirituale tra queste due civiltà resta virtualmente inesplorato. È chiaro che le relazioni commerciali sulla Via della Seta attraversate dai pellegrini in Asia Centrale comportarono dei trasferimenti rilevanti di conoscenza, i quali facilitarono l’espansione dell’Islam. Il trasferimento della scienza e della filosofia Indiana, Persiana e Araba verso l’Occidente è stata ben documentata. Una ricerca dei rapporti culturali e spirituali tra l’Islam e il Tibet è altrettanto doverosa. Punti di vista illuminanti dell’eredità comune tra l’Islam e le altre culture, possono alla fine, aiutarci ad una migliore comprensione del nostro mondo d’oggi.

Quando discutiamo dell’interazione tra la cultura Buddista e l’Islamica, la storiografia Occidentale tende a enfatizzare gli elementi di conflitto. Le cronache Occidentali che narrano l’espansione dell’Islam in Asia, per esempio, si concentrano sulla distruzione dei conventi Buddisti e dello sterminio dei monaci che rifiutarono di convertirsi. Dalla prospettiva Tibetana, la percezione di un Islam distruttore del Buddismo Indiano è rimasta dominante e ne ha impedito la ricerca in quest’area. La storiografia occidentale, da parte sua, fu tinta dagli interessi coloniali del diciannovesimo secolo. È necessario chiarire convenientemente che gli elementi di conflitto tra queste due culture furono esagerati per ragioni politiche, sia in passato che in tempi recenti. La recente dottrina rivela un ritratto più sfaccettato (Vedere ad esempio Dunlop, “Arab Relations with Tibet in the 8th and early 9th century”, Islâm Tetkikleri Enstitüsü Dergisi, 1973, 5/1-4; Gaborieau ed. Tibetan Muslims, Tibet Journal 20/3, 1995).

Sebbene molta della storia delle relazioni Islamico-Tibetane sia ancora avvolta nell’oscurità e nel mistero, siamo al corrente delle interazioni politiche ed economiche intercorse tra l’impero Tibetano di Yarlung e i Musulmani dal settimo secolo in avanti (vedere W. Barthold, C.E. Bosworth & M. Gaborieau, “Tubbat”, in Encyclopaedia of Islam, 2000; Beckwith, The Tibetan Empire in Central Asia. 1987). L’Impero Tibetano ed il Califfato formarono un’alleanza nell’ottavo secolo, il Tibet fu conosciuto bene dalle ambasciate e dalle compagnie commerciali. Fu localizzato sulle mappe Arabe, e le sue coordinate appaiano negli studi astronomici.

La Naqshbandiyyah e la Chishtiyyah

L’influenza reciproca tra il Buddismo e l’Islam avvenne grazie all’intermediazione dei diversi ordini Sufi presenti in Asia Centrale e Meridionale. Le confraternite maggiormente coinvolte in quest’opera furono la Naqshbandiyyah e la Chishtiyyah, le quali svilupparono tecniche respiratorie tipiche del Sufismo Orientale influenzato dallo Yoga (Vedere T. Zarcone, “Sufism from Central Asia among the Tibetan in the 16-17th Centuries”, TJ, 20, 1995).

Il Tibet rappresenta il centro tradizionale del Buddismo Tibetano, una forma distintiva del Buddismo Vajrayana (Tantrico). La piccola comunità di Musulmani, conosciuti come Kache, ha origine da tre regioni: Kashmir (Kache Yul nell’antico Tibet), Ladakh e paesi centro asiatici turchi. L’influenza Islamica in Tibet proviene anche dall’antica Persia. Erano commercianti che tra il 14mo e il 17mo secolo si stabilirono nel paese sposando donne Tibetane. C’è anche una consolidata comunità di Musulmani Cinesi (Gya Kache) d’etnia Hui Cinese. Sembra che le popolazioni provenienti dal Kashmir e dal Ladakh emigrarono verso il Tibet a partire dal dodicesimo secolo.

I matrimoni e le interazioni graduali hanno portato a un ingrandimento della comunità Islamica Tibetana nei pressi di Lhasa. Parlano Tibetano e seguono le abitudini Tibetane. Nell’esilio Indiano, le comunità Musulmane e Buddiste si sono concentrate maggiormente nello Stato di Jammu e Kashmir, in questo periodo sono vissute in armonia, pace e tolleranza reciproca fino a poco tempo fa, ma gli attuali sviluppi politici hanno provveduto ad allargare l’abisso tra le due comunità.

Il Tantrismo

Il Tantrismo è ancora praticato nel Tibet, ne è un’espressione religiosa nazionale, anche se spesso fu considerato un movimento sotterraneo di stregoneria in India. Il Vaishnavismo ortodosso non ne condivise le loro credenze e nel Bengala, i Buddisti Tibetani furono schiacciati dalla dinastia Sena che aveva radici Induiste. Queste persone accolsero cordialmente l’invasione Islamica, poiché si dedicò alla distruzione dei sacrari Vaishnaviti. I Sufi contribuirono a sviluppare ulteriormente il mistico Tantrismo Tibetano, denominato anche “Tantrayana” (Veicolo del Tantra) o “Vajrayana” (Veicolo di Diamante), apportando elementi di alchimia Araba e di antichi culti Egizi (assorbiti dal Sufismo Arabo). Un’esperienza simile accadde in India con l’ordine Madari dei Qalandar.
L’alchimia Tibetana si mescolò all’alchimia arabo-Islamica durante l’età dorata dell’alchimia Indiana, tra il 1000 e il 1800 d.C. Non oppressa, la nuova alchimia e il Tantra si svilupparono e si espansero rapidamente essendo una mistura di Sufismo Islamico e di tradizioni Tantriche Tibetane. I luminari dell’Islam si diressero segretamente in Tibet a studiare i Tantra. Esistono documenti in lingua Tibetana attestanti che il famoso alchimista musulmano Jabir ibn Hayyan studiò i riti Tantrici.

Le interazioni spirituali tra i Sufi Iraniani, i Musulmani Tibetani, i Buddisti e il Tantra sono più evidenti lungo la catena dell’Himalaya più che nel profondo Tibet, come emerge dalla lettura dell’Ummu-l-Kitab (“La Madre del Libro”). In questa regione l’Islam e il Buddismo Mahayanico e Vajrayana si sono fusi in una brillante ed affascinante sintesi.

L’Ummu-l-Kitab

Le componenti dell’Ummu-l-Kitab, oltre a quella Islamica, sono da ravvisarsi in elementi di chiara origine manichea e iranico-mazdea: ad esempio l’angeologia, la funzione di Salman come Salvatore dell’umanità, la concezione del Sole-logos, del Sole-Iddio e del culto del Sole come religione dell’umanità primordiale. L’imponente quantità di elementi del Buddismo Vajrayana e Mahayana sono presenti per la contiguità geografica col Tibet.

Gli Sciiti Tibetani sono presenti nella regione Himalayana del Baltistan (Pakistan lungo il confine Cinese), chiamato anche piccolo Tibet, e in parte nel Ladakh. Il loro numero ammonta a 400.000 unità. L’ascendenza dell’Islam sulla coscienza del popolo Balti non può essere dubitata. Ma c’è anche un’altra identità alla quale i Balti si aggrappano — ed è la loro preislamica comune origine col Tibet e col Ladakh. I Musulmani Balti parlano un Tibetano arcaico affine a quello diffuso nel Tibet Orientale dell’Amdo o alla lingua del Ladakh. Sognano di riunirsi alla madrepatria Tibetana. Culturalmente il popolo Balti ha assimilato parole dal Persiano, dall’Urdu e dall’Arabo. Il Baltistan (chiamato Baltiyul dai locali), si trova nelle valli aride del Karakorum, ed è il congiungimento storico tra il mondo Buddista e il mondo Musulmano. Storici Europei affermano che gli abitanti originari del Tibet Occidentale, del Ladakh e del Baltistan furono i cosiddetti Ariani “Dardi”, gli abitanti della regione del Bolor, così come Marco Polo li chiama nel “Milione”. Il Bolor fu un tempo un centro dello sciamanesimo Bon, la religione indigena dell’alto Himalaya.

Il Buddismo arrivò nel Baltistan con l’avvento dei Mon, una tribù Indo-Ariana arrivata con i missionari Buddisti nel secondo secolo. (I Mon oggi sono una “sotto casta” di musicisti e falegnami). Più tardi, la Valle dell’Indo si trasformò in un’importante arteria della “Via della Seta”, e il Baltistan servì come passaggio per la diffusione del Buddismo Mahayana dall’India all’Asia Centrale e alla Cina.

Renzu Shah

L’espansione dell’Islam nell’area è fatta risalire a rGyalbu Rinchen (o Rinchana Bhoti), islamizzato Renzu Shah, un Principe Tibetano che dominò il Kashmir dal 1319 al 1323. Ispirato dall’esempio di un saggio Musulmano, Bulbul Shah, Rinchen si convertì all’Islam col nome di Sadruddin. A partire dal 1300, i predicatori Sufi arrivarono dalla Persia annunciando l’Era Islamica nel Kashmir e nel Baltistan. Ma le conversioni di massa del popolo Balti all’Islam si ebbero a partire dal nono Re Maqpon Gotacho Senge. E fu sotto il quindicesimo Re Maqpon Ali Sher Khan Anchan che i Balti Musulmani pensarono di allargare il loro territorio intrattenendo relazioni con gli Imperatori Mughal.

Difatti, la vera storia Islamica del Baltistan Tibetano inizia coll’arrivo di Amir Kabir Syed Ali Hamadani, un leggendario Sufi, dall’Iran durante il 15 secolo. Dopo di lui arrivò Shah Syed Muhammad Nurbaksh. La regione intera fu convertita all’ordine Sufi dei Nurbakshi. Il messaggio del Nurbakshismo è il seguente: l’eliminazione completa di tutti i cattivi desideri e delle immoralità dalla natura umana, dal proprio Io; la sottomissione totale della propria volontà ad Allah (nel rispetto del Corano e della Sunnah), ed infine amore e pace per l’umanità intera.

I Sufi Nurbakshi

All’inizio de 19mo secolo, la maggior parte della popolazione si convertì alle scuole Sciite e Sunnite. Oggi, i Balti sono Sciiti al sessanta percento, i Sufi Nurbakshi sono al trentatré percento, i Sunniti sono al sei percento, altri all’uno percento. Gli Sciiti e i Nurbakshi condividono le stesse credenze. I Musulmani locali, convertiti dal Bon-po e dal Buddismo seguono ancora molti rituali presenti nello sciamanesimo Bon e nel Lamaismo, che fanno dell’Islam del Baltistan e del Ladakh una comunità Islamica unica nel suo genere. La Svastica è considerata un segno di auspicio, viene intagliata nella pietra o su assi di legno che possono essere visti nelle moschee storiche e nelle Khanaqa (centri Sufi). Sono rispettosi verso “Lha” e “Lhu” (spiriti buoni Bon) durante gli abituali rituali di invocazione. Nelle Khanaqa, praticano la purificazione spirituale (“Tazkiah”), la meditazione e la contemplazione.

Nonostante l’Islamizzazione del Baltistan, i matrimoni misti tra le famiglie reali del Ladakh e del Baltistan furono comuni. I Re Buddisti presero mogli musulmane ed elevarono i loro figli nella religione dell’Islam. Del leggendario Re della dinastia Maqpon, Ali Sher Khan Anchan (1560 – 1625 AD), Anchan nella lingua Balti-Tibetana significa il Forte, si narra che concesse la mano di sua figlia Gul Khatun (Aka Mindoq Gyalmo) al Re Ladhako Jamyang Namgyal (1560-1590).

Accomodamenti tra le due religioni furono trovati, anche se dagli archivi ufficiali non vennero accettati. Le canzoni Ladakhi in encomio al loro reale lignaggio, omisero accuratamente i nomi dei principi convertiti all’Islam. A.H. Francke, un missionario Moravo, scrisse nel 1907, che la dinastia Mapson del Baltistan fabbricò il suo albero genealogico con più nomi Musulmani nel tentativo mirato di annullare la sua storia preislamica.
Lo Sciismo Islamico offre una formidabile resistenza alle forze del cambiamento culturale che percorre l’Asia Meridionale. Il Movimento Sciita attuale del Pakistan “Tehrik-i-Jaffaria Pakistan” cura gli interessi religiosi e culturali del Baltistan. Ma la perdita delle pratiche culturali preislamiche Tibetane sparite sotto la pressione dell’Islam, è sempre più presente nelle preoccupazioni del popolo Balti. Danze tradizionali e feste preislamiche come il “Me-phang”, il “Mindok Ltanmo” e lo “Srup Lha” sono quasi scomparse.

La festa del Me-phang e del Mela Charaghan

La festa del Me-phang (letteralmente “che getta Fuoco”) è simile alla festa Islamica del Charaghan di Lahore in Pakistan. Si fanno balli e ci si visita reciprocamente. La festa del “Mela Charaghan” (La festa delle luci) inizia il 29 Marzo vicino alle tombe, e fuori, ognuno allegramente festeggia per tre o quattro giorni. Per le persone comuni, la morte è un evento triste, luttuoso; ma per un Sufi è solamente una transizione – il passo finale verso la comunione dell’anima con Dio, un “Milan” (in Urdu “unione”) – che gli permette di sposarsi col Divino, e celebra quest’unione gaiamente.

Mindok Ltanmo

Il “Mindok Ltanmo” è un Festival Floreale, in cui la musica e la danza ringraziano gli spiriti e danno il benvenuto alla primavera e alla calda estate. Tra la letteratura popolare Tibetana e Musulmana, opere come il “Lha Kesar” (Cesare imperatore degli dei) e i lavori di Ali Sher Khan Anchan sono le più affermate.
Un piccolo gruppo di studiosi locali ed alcuni giovani colti tentano di rianimare ogni espressione della civiltà del Tibet o del Ladakh, in un tentativo disperato di rivalutare la propria identità spirituale e culturale a dispetto di un Islam Sciita razionalista (la cosiddetta via del mantiq, “la logica aristotelica”).

I Balti affermano che rivendicare la propria eredità spirituale e culturale è più importante dell’appartenenza ai dettami esteriori di una religione. Questa comunità ha eretto un filo spinato in difesa della statua del Budda di Skardu, il capoluogo del Baltistan, per proteggerlo dai vandali. I Balti sono insofferenti verso la cultura Panjabi dominante, e sentono di aver perso il collegamento col proprio passato. Per la cultura dominante del Pakistan indossare gli abiti di lana tradizionali dei Balti e parlare in Tibetano è sinonimo d’arretratezza. Gli studiosi Balti intendono sostituire l’alfabeto Arabo coll’alfabeto Tibetano, in quanto l’Arabo sarebbe inadeguato a rivelare la ricchezza della lingua Balti. Recentemente, degli studenti musulmani Balti hanno usato la svastica come loro logotipo, in quanto simbolo della prosperità nella loro antica cultura Bon. I segnali di cambiamento sono notevoli, e l’anima del Baltistan, nonostante l’Islamizzazione, è sempre più ansiosa di riabbracciare la sua antica diversità.

I Burig

I Burig, o Purik, sono un altro gruppo di Musulmani Tibetani che vive a sud del Baltistan, nel Kashmir. Molti di loro vivono anche nel Baltistan e a Kargil, sebbene un numero rilevante di loro risieda a Leh. Dato che abitano sulle più alte e aride cime dell’Himalaya, l’irrigazione dei loro raccolti dipende dallo scioglimento dei ghiacciai. L’orzo, il grano e il miglio crescono dove vi è sufficiente acqua, lungo i piccoli rivoli. La calda temperatura estiva permette una notevole varietà di frutta. Contrariamente ai Dardi e agli Shina, i Burig non sono nomadi. Praticano la transumanza del bestiame per la produzione del latte.

Molti di loro sono Musulmani Sciiti, ma esiste un significativo gruppo di Musulmani Sunniti. I Buddisti e i seguaci dello sciamanesimo Bon ammontano a circa 3000 persone, risiedono in isolate aree come la valle di Kharmang e ad Ovest di Kargil. Nel Ladakh (Leh e Zanskar) sono predominanti i Buddisti. Come i Balti, parlano un dialetto arcaico Tibetano.

Tutti i musulmani Tibetani del Kashmir hanno una particolare venerazione per i loro Santi Sufi. Il governatorato locale del Kashmir sta ristrutturando il sacrario del riverito Sufi di Ardebil, Syed Sharafu-d-Din, popolarmente conosciuto come Bulbul Shah, l’ispiratore del principe Tibetano rGyalbu Rinchen, il quale è in condizioni disastrose dopo secoli d’incuria.

Hazrat Bulbul Shah

Hazrat Bulbul Shah si recò verso il Tibet per conto dell’ordine Sufi dei Safavidi, di cui suo fratello Shaikh Safi-ud-Din di Ardebil (Iran) ne fu il fondatore. Bulbul Shah arrivò in Kashmir nell’anno 1320, durante il regno del Re Buddista Rinchana Shah. Hazrat Bulbul Shah amava il Profeta dell’Islam, la Sua Famiglia e la Sua Discendenza: ciò è dimostrato dal fatto che quando incontrò il principe Tibetano Rinchen Shah, gli parlò sia dei miracoli compiuti dal Messaggero di Allah, sia delle virtù e delle qualità superiori dell’Imam Ali. Ascoltandolo, il Principe rGyalbu Rinchen, si inchinò alla religione del Profeta Mustafa e ai retti principi dell’Imam Ali Murtaza.

Bulbul Shah era un predicatore di professione, ma la ragione per cui scelse di dirigersi e di predicare esclusivamente in questa parte del globo resta un mistero, né ci è consentito sapere delle sue attività nella vallata prima dell’incontro con il Re Tibetano rGyalbu Rinchen, anche se gli storici suppongono che Bulbul Shah arrivò in Kashmir al tempo di Raja Suhadeva, il predecessore di Rinchen. Lo studioso Vladimir Minorskij ipotizza che la teocrazia dei Safavidi si sia comparata al governo del Dalai Lama nel Tibet.

Dopo la conversione di Rinchen Shah, il quale adottò il nome di Sultan Sadruddin, Bulbul Shah propagandò apertamente l’Islam convertendo influenti personalità del Kashmir. Col declino del potere in Tibet, il popolo Balti cadde sotto il controllo della famiglia Rmakpon nell’undicesimo secolo e della famiglia Shagari nel dodicesimo secolo, e intrattenne relazioni di buon vicinato col Ladakh. Le stesse caratteristiche linguistiche e culturali che accomunano il “Baltiyul” e il “Ladakh”, permisero la formazione di una singola unità amministrativa fino al 1948, prima dell’annessione del Baltistan al Pakistan. L’ultima dinastia Maharaja del Kashmir conservò l’unità amministrativa intatta convertendola in una provincia denominata “Ladakh Wazarat” (questa provincia era composta dal Baltistan, dal Ladakh centrale, dal Purik, dal Zanskar e dalle aree di Changthang). Skardo, città del Baltistan o “Baltiyul”, divenne la capitale invernale, mentre Leh, città del Ladakh Centrale, fu la residenza estiva. La provincia fu divisa in tre distretti: Skardo, Leh e Kargil.

Bulbul Shah è ricordato come una brillante stella nella galassia degli astri che hanno illuminato la storia Islamica della valle. Fu il primo missionario che riuscì ad ispirare spiritualmente il Kashmir e il Baltistan Tibetano. La sua missione segna l’inizio dell’era Islamica in Kashmir. Fu anche un sapiente ed un buon statista.

Sultan Sadruddin, fondò una Khanqah nel cuore di Srinagar (Kashmir) lungo le rive del fiume Jhelum dove Bulbul Shah prese residenza. Il luogo venne più tardi conosciuto come Bulbul Lanker. Bulbul Shah utilizzò questa Khanqah per la diffusione dei principi dell’Islam e del Sufismo. Migliaia di turisti stranieri visitano ogni anno questo Sacrario. È stata aggiunta attualmente una biblioteca e un auditorio in onore di Hazrat Bulbul Shah nella vicina zona di Eidgah.

I musulmani Tibetani residenti nel profondo Tibet usano di preferenza nomi Tibetani, mentre si limitano ad usare quelli Persiani o Urdu come soprannomi o nomignoli. Questo non è comune fra i Burig e i Balti dove il processo di Islamizzazione è maggiore. La lingua Tibetana è usata da tutti i gruppi nella loro vita quotidiana, mentre l’Arabo e l’Urdu sono usati negli uffici religiosi.

Il Baltistan è orgoglioso della sua ricca civiltà millenaria. La sua architettura, i suoi costumi, la sua cucina, le sue feste, i suoi balli, la sua lingua, la sua scrittura, i suoi poemi epici, lo rende unico fra i suoi vicini di casa. Gli attuali studiosi Balti come Ghulam Hassan Lobsang, Ghulam Hassan Hasni, Syed Abbas Kazmi e Mohammad Senge Tshering Hasnain hanno contribuito notevolmente alla riscoperta della cultura Balti e Tibetana. Il restauro dell’antico monastero Buddista e del suo Budda, sono inseriti in un più vasto progetto mirante all’unificazione con i loro fratelli del Ladakh.

Balti Tam Lo

Il recente libro “Balti Tam Lo” (Proverbi Balti) scritto da Ghulam Hassan Hasni contiene 900 Balti-Ladakhi proverbi, idiomi e espressioni. Inoltre, lo scrittore Hassan Lobsang ha pubblicato dei libri sulla tradizione locale dello sciamanesimo Bon e sull’antica cultura Buddista Baltiyul.

Segno di prosperità, lo Yungdrung, nella moschea centrale di Gilgit riafferma i legami culturali locali con l’India e la comunità himalayana.

JABIR IBN HAYYAN E LO YOGA TIBETANO

I collectanea (sono una raccolta di diversi articoli dotati di una coerenza tematica e preceduti da un’introduzione del curatore) Tantrici Tibetani mettono in luce gli stretti, ma celati rapporti esistenti tra la spiritualità Islamica e la Tibetana. Il volume 48 del “Rin chen gter mdzod chen mo” (La gran tesoreria preziosa), e il volume 11 del “Sgrub thabs kun btus” (Tutte le sadhana collezionate insieme) contengono gruppi di testi riguardanti il grande e straordinario alchimista Arabo Jabir ibn Hayyan, chiamato in Tibetano col nome di “Dza-bir” o “Dza-ha-bir”. Questa è certamente la traduzione Tibetana del nome Arabo Jabir, il quale si riferisce in particolare a Jabir ibn Hayyan, lo straordinario alchimista Islamico che visse tra il 712-815 d.C.

Secondo Sle-lung Rje-drung Bzhad-pa’i-rdo-rje (1697), Jabir nacque a Nagarkort nell’India Occidentale. Era figlio di un Re ed il suo nome era “Manikanatha”, ma divenne nel diciassettesimo secolo famoso come un immortale Yogi col nome di “Mahasiddha Jabir” (a quasi tutti gli Yogi Tantrici è attribuita una nobile nascita, o di essere figli di Re). Questa è apparentemente la sola fonte narrativa Tibetana della sua vita che possediamo. I materiali Tibetani studiati evidenziano che Jabir fu prima di tutto un Natha Siddha. Questo lo dimostra chiaramente il suo nome “Manikanatha”, la cui desinenza finale è “Natha”, in ricordo di Goraksanatha e di altri Yogi appartenenti al suo lignaggio.

I Natha Siddha furono dei grandi praticanti di Hatha-Yoga, ed è sotto quest’aspetto che Jabir è importante presso la tradizione Tantrica del Tibet. Secondo A-khu-ching Shes-rab-rgya-mtsho (1803-1875), Jabir è posto tra Padmasambhava e Vajranatha nella trasmissione del “rlung gi bcud”, cioè l’insegnamento del “soffio vitale” (in tibetano “rlung”).

“Rlung gi bcud len” (analogo al Pranarasayana indiano) rappresenta “l’estrazione del respiro vitale”; fa parte di un gruppo di tecniche yogico-alchemiche che permettono allo yogi di vivere estraendo gli elementi (aria, fuoco, acqua, etere e terra) contenuti nella roccia, nei fiori, ecc… Queste pratiche si compiono all’interno dei più elevati (anuttara-yoga) cicli di Tantra in Tibet col mirato intento di allungare la vita, abilitando i praticanti a continuare e a espandere i loro Bodhisattva (il Bodhisattva è colui che entrato nel sentiero che porta all’illuminazione raggiungendo i primi stadi di comprensione. Il Bodhisattva è colui che possiede la Bodhicitta, ovvero l’aspirazione totalmente compassionevole di voler raggiungere l’illuminazione, ma non per se stesso, ma per il beneficio di tutti gli esseri senzienti).

Lo straordinario insegnamento di Jabir è il Rasayana (letteralmente “ciò che promuove il flusso della vita”) praticato in Tibet, e sembra essere il primo lavoro documentato ancora esistente sul “rlung gi bcud len”.

Parlare di Jabir ci coinvolge in una valutazione sul Buddismo, sul Nathismo e sul Sufismo. Una valutazione obiettiva, rivela uno stretto rapporto tra questi gruppi che sono stati spesso considerati separati nella storia medievale dell’India. La scienza sacra mostra ampiamente che questa divisione è in realtà soltanto fittizia. L’idea di un Buddista di nome Jabir è indicativa nelle fonti Tibetane, rispecchia l’atteggiamento di apertura mentale del sistema Natha verso gli studenti di ogni fede religiosa. L’esempio è dato da Matsyendranatha, il fondatore della tradizione, il quale insisteva enfaticamente sulla pratica dello yoga piuttosto che sulle varie dottrine. Il suo discepolo, Goraksanatha, aveva almeno due nomi: Anangavajra e Ramanavajra, e secondo Purohit Swami, aveva anche un nome musulmano. Goraksanatha ebbe un discepolo, un Siddha, col nome Islamico di Ismail.
“Ben poco si conosce della vita di Jabir…Si dice che fosse un discepolo del sesto Imam Sciita, Giafas As-Sadiq, il quale fu non solo il fondatore della scuola di diritto Sciita duodecimana nota come scuola di Giafar, ma anche una fra le autorità principali su ogni conoscenza esoterica… Di fatto, ci fu una sorta di società che ne usò il nome per tutti i suoi scritti. Il nome di Jabir non si riferisce solo ad una persona storica ma è anche, come quello di Vyasa nell’Induismo, un simbolo per una funzione intellettuale e per un orientamento.”
(Seyyed Hossein Nasr, Scienza e civiltà nell’Islam, Feltrinelli Editore, pag 211)

Sembrerebbe una speculazione, ma è probabile che Jabir ibn Hayyan pur essendo un musulmano, abbia praticato il Tantrismo in Tibet. Jabir ibn Hayyan fu uno Sciita e un sostenitore della dinastia Barmakide presso la corte Abbasside. Khalid ibn Barman, il quale era stato istruito in medicina e in altre scienze nel Kashmir, fu il consulente principale del Califfo al-Mansur durante la costruzione della sua capitale, Madinatu-l-Salam. Sappiamo oggi che fu un prete Buddista proveniente dai territori Asiatici più lontani sotto il controllo Iraniano.

Effettivamente, il vero nome della dinastia Barmakide che fu consigliera alla Corte Abbaside, proviene dal termine Sanscrito “pramukha”, cioè “capo”, un titolo usato, talaltro, dai monaci superiori dei monasteri Buddisti, da cui provenne Khalid. Suo figlio, Yahya, è citato direttamente dopo Jabir ibn Hayyan nella lista del “Fihrist” (“Indice”) di Ibn al-Nadim tra coloro “che seppero l’Arte”, cioè l’Alchimia. Quest’informazione sembrerebbe sufficiente a dimostrare l’esistenza di un’unica tradizione che combina gli elementi Islamici, la pratica Buddista e la scienza esoterica dell’Iran. Il prodotto successivo di quest’amalgama sembrerebbe essere stato un certo Manikanatha, nato in Nagarkot, un alchimista Sufi conosciuto dai Tibetani come un Vajrayanista di nome Jabir. È difficile stabilire la relazione cronologica tra le personalità importanti impegnate in questo tipo di insegnamento; cioè, Jabir, Goraksanatha e Padmasambhava. Questi ultimi potrebbero esser stati quasi contemporanei di Jabir ibn Hayyan; le sue date oscillano spesso tra il 716 e il 762. Il famoso Goraksanatha è stato datato variamente a cavallo di parecchi secoli, ma l’ottavo appare essere il più probabile. Mentre pare certo che l’insegnamento trasmesso sia genuinamente Nathista, e che Jabir ibn Hayyan fu un Natha, la presenza di Padmasambhava in questo lignaggio è discutibile.

Padmasambhava 

Padmasambhava nacque nella valle dello Swat in Pakistan e rappresenta la figura di Ermete nel Tantrismo Tibetano. Visse anche lui nell’ottavo secolo. È conosciuto in Tibet con il nome di Guru Rimpoche (“maestro prezioso”). Padmasambhava riuscì a sconfiggere e a sottomettere le antiche divinità Bön che da tempo immemorabile regnavano nel Tibet. Guru Rimpoche diffuse il primo Cham che è il veicolo culturale principale per le espressioni artistiche di musica, canto e danza. La diffusione del Cham corrisponde all’ingresso della cultura Buddista in un mondo sciamanico ed esprime molto concretamente la sintesi delle due anime Himalayane: l’unione del misticismo adottato dai saggi buddisti dell’India con le potenti capacità di divinazione e di rapporto con l’occulto dei devoti del Bon, capacità che furono sviluppate in un contesto naturale animato da forze soverchianti. Padmasambhava è quindi il veicolo e il sigillo di rilevazione e di accettazione di una pratica spirituale. L’insegnamento di Guru Rimpoche verrà in seguito integrato nelle pratiche dei Musulmani Balti, i quali seguendo i suoi dettami possono dirigere gli spiriti Bon così come il Profeta Muhammad, la pace sia su di Lui, governava i Ginn. Anche l’Ummu-l-Kitab dei Musulmani Himalayani, essendo datato nell’ottavo secolo, è poco posteriore alla definizione della dottrina mistica di Padmasambhava, e si articola secondo il Suo magistero.

Quindi, il valore storico di Guru Rimpoche si collega al lignaggio dei puri Parampara, che è il Lignaggio dei Maestri Advaita, il quale incomincia con il Daiva Parampara (Lignaggio degli Dei), seguito dal Rishi Parampara (Lignaggio dei Rishi).

La prossimità storica tra Jabir e Goraksanatha indica una comune e grande vetustà nella catena spirituale. (Non c’è ragione di dubitare che i posteriori Buddisti abbiano preservato almeno le pratiche ed i rituali iniziatici; una severa e corretta trasmissione del lignaggio è necessaria per dimostrare che l’integrità di tali pratiche sia valida per i Musulmani, per gli Indù e per i Buddisti).

Dgongs gter

I documenti Tibetani asseriscono che Jabir ibn Hayyan conobbe la tradizione del “Dgongs gter” del Rnying-ma-pa, secondo cui le rivelazioni si manifestano immediatamente in visioni da un illuminato come Samantabhadra o Padmasambhava. Questa tradizione è suddivisa in tre cicli d’insegnamento e le rivelazioni precedenti al “Dgongs gter” non sono difatti considerate importanti. Questi tre cicli furono riuniti e compilati rispettivamente dai seguenti Maestri: Bri-gung Rin-chen-phun-tshogs, Jams-dbyangs Mkhyen-brtse’i-dbang-phyug e Nyi-zla-klong-gsal.

Parti di questi tre cicli si ritrovano anche nel “Gdams Pa” e nel “Srog Bcud Bum Bzang”.

Gli esercizi di Jabir

In un libro del Maestro Mkhyen-brtse’i-dbang-phyug intitolato “Mkhyen-brtse on the history of the Dharma” e ristampato in inglese a Leh (Ladakh) nel 1972, sono descritti gli insegnamenti e gli esercizi (phyang len) di Jabir. All’inizio si insegna che è dannoso per la salute mangiare e bere birra insieme. Successivamente si insegnano le pratiche dietetiche e infine si arriva alla rinuncia del cibo per sette anni mentre si è assorbiti in vari tipi di rasayana. Questo digiuno include anche l’astinenza dall’acqua, anche se talvolta una bibita a base d’orzo è consentita.

Lo yoga dell’immortalità, dell’alchimia (rasayana) e della longevità è tipico della tradizione Nath. Va detto che queste pratiche si ritrovano nella tradizione Sufi e Tantrica del Bengala. Muhammad Enamul Haqq riferisce che questi esercizi curano croniche ed incurabili malattie mediante l’applicazione esterna o interna dell’acqua della vita (“Tsche chu” in Tibetano).
(A history of Sufism in Bengal, Dacca, Asiatic Society of Bengal, pag 141)

Chig Brgyud ma

La pratica del “Chig Brgyud ma” fa parte del primo dei tre cicli d’insegnamento: è insegnata la recitazione d’appositi mantra per l’ottenimento della longevità (detti mentre si beve l’acqua consacrata), la protezione dai veleni, i poteri contro i demoni come byad, lha e ‘dre, ecc… Jabir trasmise questa pratica a Vajranatha insieme al controllo dei pensieri (“i venti della mente” in Tibetano). Jabir insegna il “Mtshon srung” che sono pratiche mantriche: la recitazione mantrica con l’uso di coltelli, i mantra per la benedizione dell’acqua, il mantra per superare la pazzia, il mantra per le pratiche alchemiche, un mantra per acchiappare un ladro nella strada, il mantra per fermare la pioggia e la neve, il mantra per l’ottenimento di qualsiasi cosa. Sono insegnate le tecniche dei venti vitali: il vento dei rapidi piedi nudi, il vento serpente (sbrul rlung), il vento che chiarifica i torpori mentali. Sono spiegati i mantra da scrivere sui vestiti.

Tralascerò la descrizione del programma d’insegnamento del “Brgyud-Pa-bar-Pa” e del “Brgyud-Pa Phyi-ma” appartenenti al secondo e al terzo ciclo, perché non di mia competenza.

Rnying-ma (Nyingma)

Controllo, purificazione, e altre pratiche con i venti e gli elementi sono dei requisiti essenziali nel progresso spirituale dei Tantra Indù e Buddisti. La tradizione Tibetana mira alla trasformazione dei nostri corpi impuri in corpi di luce agendo sugli elementi sottili. Il “Rnying-ma” e la pratica Yogica Bon, così come lo Yoga della tradizione Nath, trasforma il corpo in un “Arcobaleno di luce”. Gli straordinari insegnamenti di Jabir ibn Hayyan conservati nella tradizione Tibetana riguardano proprio la costituzione dell’Arcobaleno di luce. Eccone un estratto:

“Purifica tutti i campi – il corpo, la casa, la vallata, la regione – in un vuoto senza visualizzare immagini. Dallo stato di vuoto viene avanti il Siddha Jabir, il tuo Lama, la tua fonte graziosa e bella (brjid chags pa), il cui corpo è di un porpora scuro e corpulento (sha rgyas pa). Appare con la corona sul capo di Samantabhadra (“Kuntu Bzanpo” in Tibetano, viene rappresentato spesso a cavallo di un elefante con sei zanne), che deve essere pensato isolatamente, senza ornamenti, e di colore blu. Jabir è brillante come dieci milioni di Soli, è (anche) solo e senza ornamenti sul resto del corpo, ed ha le punte dei suoi pollici premute alle due piatte suole dei piedi, toccandoli. Il suo “Brahmarandhra” (o Sahasrara) è forato (zug pa). Le sue mani, i suoi palmi piegati, si incontrano alla cima della testa, ed i suoi capelli si intrecciano in un ciuffo. (Quando ciò è compiuto), chiedigli di illuminare e di purificare ogni azione impura percepibile da tutte le esperienze biasimevoli, dalle morali deficienze causate da atti cattivi e impuri, dalle malattie e dalle influenze negative e gravose generate dalle innumerevoli vite precedenti – e per la Tua gioia – chiedigli di essere in tutti i rifugi contemporaneamente (in arabo ‘audhu-bi-Allah).

Yoga del Vuoto

Lo scopo fondamentale dello “Yoga del Vuoto” è di pulire completamente le oscurità apparenti della coscienza. Il praticante è così benedetto per intercessione della divinità al conseguimento della Siddhi detta dell’attraversare il cielo (“khecara”) durante questa vita terrena. Poi recita una speciale preghiera per oltre centomila volte, e quando lo Yogi pone il palmo della sua mano destra tra le sue sopracciglia e ripete tre volte: “Na mas Dza-ha-bhir” (“Salve! Oh, Jabir).

Mahasukka

Nel momento in cui Jabir ibn Hayyan diventa felice e sorridente presso lo Yogi, raggi rossi di luce e il fascio colorato e risplendente della grande benedizione (“Mahasukka”) raggiungono la testa dello Yogi dissolvendosi (nella terminologia Tantrica persiana dell’Himalaya si direbbe che lo Spirito di Luce, “Ruh-i-roushani”, ha penetrato la fontanula del capo, “farq-i sar”) . Il corpo dello Yogi , la sua parola e i suoi pensieri si mischiano in un’unità indistinguibile che fanno dello Yogi il Guru di sé stesso nel reame di Mahamudra (“il Grande sigillo della realtà”. Il Mahamudra è una serie di insegnamenti che descrivono la vera natura della realtà, il vuoto o la vacuità luminosa, ed indicano come meditare su di essa. Budda promise che questo sarebbe stato il suo insegnamento ultimo; esso mira alla diretta esperienza della mente. Avendo fiducia nella natura di Budda, il praticante si esercita a rimanere nella condizione di non-separazione tra il soggetto che sperimenta, ciò che è sperimentato e lo sperimentare stesso, riuscendo infine a risvegliare la mente in modo totale, suggellando così la sua Illuminazione).

Brgyud pa bar pa

Il “Brgyud pa bar pa” enumera moltissimi altri insegnamenti di Jabir che sono di natura prettamente pratica e tecnica. Mi astengo, quindi di riportarli, poiché questa non è la sede adatta.

L’interesse di Jabir ibn Hayyan per lo Yoga Tibetano non fu senza fondamento. L’Iran Islamico conservò l’eredità dell’Iran Buddista come se nessuna rottura avesse avuto luogo; si può dire che il Buddismo fu Iranizzato. Se noi accettiamo l’idea che la dinastia Barmakide fu la manifestazione più evidente del Buddismo nella prima fase della società Islamica Iraniana, la loro connessione con Jabir ibn Hayyan merita la nostra attenzione.

KALACHAKRA TANTRA E PROFETOLOGIA ISLAMICA

Il Kalachakra Tantra apparve in India alla fine del secolo decimo e probabilmente fu scritto in questo periodo. Nelle scritture del Kalachakra sono presenti anche elementi profetici, come avviene in tutte le tradizioni religiose mondiali. Purtroppo, alcuni commentatori buddisti indiani, mal interpretando le scritture, hanno demonizzato ingiustamente tutte le religioni monoteiste, e in particolar modo l’Islam, predicendo la venuta di un messia di nome Mahdi, il quale verrebbe sconfitto dal Re Buddista Kalki Rudrachakrin di Shambala verso il 2424 d.C. Nel versetto 1.154 del “Kalachakra Tantra” leggiamo:

Versetto 1.154 del “Kalachakra Tantra”

“Adamo, Noé, Abramo, e cinque altri – Mosé, Gesù, Colui che indossa un abito bianco, Muhammad, e il Mahdi – con tamas, appartengono alla casta degli asura-naga. L’ottavo sarà accecato (il Mahdi). Il settimo (Muhammad) si manifesterà a Bagdad e nella terra della Mecca, (il posto) in questo mondo dove una parte della casta degli asura sarà potente, in cui i mleccha saranno spietati.”

Un commentario Buddista intitolato “Padmini” riporta quanto segue:

Padmini

“Se chiedete chi diffuse il Dharma dei mlecchas, è detto: Adamo, Noé, e Abramo della casta degli asura e, dalla casta naga, i cinque con tamas: Mosé è uno, e Colui che indossa un abito bianco, Muhammad, e l’Emanazione. L’ottavo sarà accecato. Il settimo si manifesterà a Bagdad e nella terra della Mecca. Questi sono dei nomi non Buddisti, e così via, diffonderà il Dharma degli asura. Tra questi, Colui che indossa un abito bianco è chiamato Mahamayin. Costui propagherà il Dharma degli asura nelle città della terra della Mecca e così via. Se chiedete che tipo di terra è quella, è detto: (È il posto) in questo mondo dove la casta degli asura avrà potere, in cui i mleccha saranno spietati.”

In India, il termine usato dalla lingua Vedica per indicare gli occidentali è “mleccha”, indica anche la classe più bassa, la più degradata; significa anche gli eretici maestri dei barbari, gli stranieri, i mangiatori di cani; oppure la gente che non parla Sanscrito e non si adegua alle pratiche indù convenzionali. Asura, invece, è il nome di una razza di demoni che nella mitologia indiana padroneggia la magia nera. Tamas è il putrido che causa offuscamento. Termini che offendono chiaramente la sensibilità dei musulmani e degli occidentali.

Questi commentatori dimostrano di non aver nessuna conoscenza dello Yoga Tibetano. Infatti, secondo la tradizione Yogica e Tantrica degli antichi maestri buddisti Tibetani, nello “Tsa-rLung” (in tibetano significa “produrre il prana”), esistono certi orari della giornata che sono più favorevoli per l’accumulazione dell’energia neurale, e questi momenti coincidono con le cinque preghiere praticate dai Musulmani e dai loro movimenti.
Kalachakra è un termine del Tantrismo Buddista che significa “Ruota del Tempo”. Rudrachakrin significa “Colui della Ruota Violenta”, e secondo questi commentatori costui sarebbe la “grande ruota di ferro che discenderà dal cielo” per abbattersi sui Musulmani dopo che l’Imam Mahdi avrà realizzato il Regno Islamico Mondiale.

Imam Mahdi

Nel Kalachakra molte profezie sono identiche per le modalità di esecuzione a quelle della profetologia Islamica. Si parla, del combattimento che si svolgerà nei pressi della città della Mecca. Ci viene immediatamente in mente la rivolta di al-Sufyani presso la Mecca. Ma la battaglia decisiva avverrà a sud del fiume Tarim, in una località situata in Iran o, forse, in Turchia. La riconquista di Costantinopoli (Istanbul), ad esempio, è accennata nella tradizione dell’Islam, sotto il nome di Costantina.

Dobbiamo essere molto prudenti, tuttavia, e non tentare di trasformare gli affascinanti insegnamenti del Kalachakra, che sono comunque posteriori all’insegnamento di Jabir ibn Hayyan e di Goraksanatha, in interpretazioni fantasiose, come hanno fatto alcuni commentatori Buddisti.

I nostri fratelli Musulmani Tibetani, del Baltistan e del Ladakh, che studiano da secoli il Kalachakra Tantra, hanno dato una risposta alle predizioni fornite dai commentatori buddisti indiani. Essi hanno identificato nel Re Buddista Kalki Rudrachakrin il Dajjal, il quale si incarnò precedentemente in Gengis Khan.

Le ragioni dell’avversità del Buddismo nei confronti dell’Islam sono semplici. La dottrina del Kalachakra fu introdotta in India nel X secolo quando l’Islam costituiva già una grande minaccia; i Musulmani furono infatti i distruttori del Buddismo dell’India settentrionale. Si può dire che la sparizione del Buddismo in India ne sia stata una delle principali conseguenze. Fu in questa epoca che, secondo i testi storici del Buddismo Tibetano, la dottrina del Kalachakra arrivò in India da Shambala.

Il Kalachakra Tantra può essere meglio compreso da una posizione imparziale, quella degli Indù, che non riflette uno spirito di vendetta nei confronti dei Musulmani. I Kalki Purana sono stati scritti dagli Indù in risposta alle profezie Buddiste contenute nel “Kalachakra Tantra”.

Nella tradizione Buddista del Kalachakra, Rudrachakrin o il Kalki (o Kulika) è il trentaduesimo Signore del leggendario Regno di Shambala.

Il Kalki

Nella tradizione Indù, Kalki (chiamato anche Kalkin e Kalaki) è il nome del decimo ed ultimo Maha Avatata (Grande Avatar) di Vishnu il Preservatore, il quale terminerà l’attuale era del Kali Yuga, (L’Età dell’Oscurità e della Distruzione). Il nome Kalki è spesso una metafora di “Eternità” o “Tempo”. Le origini del nome probabilmente dimorano nella parola Kalka che si riferisce a “sudiciume”, “sozzura” o “oscenità, perfidia” e denota il “Distruttore del Sudiciume”, “il “Distruttore della Confusione”, il “Distruttore dell’Oscurità”, Il “Distruttore della Malvagità” o “L’Estintore dell’Ignoranza”. Nella lingua Hindi “Kalki Avatar“ significa “l’Avatar di domani”. Altre interpretazioni simili e divergenti – basate sulle variazioni etimologiche derivate dall’antica lingua Sanscrita che hanno il significato di “Cavallo Bianco” – sono state elaborate.

Le profezie di molte tradizioni religiose hanno dipinto racconti differenti sull’avvento dell’Avatar Kalki. Innumerevoli sono così le sue motivazioni, i luoghi della sua apparizione e lo scopo Divino della sua discesa.

L’immagine popolare dell’Avatar deducibile dal “Devadatta” (è anche il nome del cugino invidioso del Budda da cui sorse lo scisma) è quella di un cavaliere che monta un cavallo bianco. Altri dichiarano che il Kalki entrerebbe nella forma di un cavallo bianco, e pochi altri ancora, sostengono che si manifesterebbe con la testa di uomo e il corpo da cavallo. La tradizione popolare più comune narra che il Kalki brandirà una spada fiammeggiante come una cometa, nell’intento di sradicare il regno del male dalla Terra, sconfiggerà Yama (la Morte), riconcilierà tutti gli opposti, rinnoverà i processi del Dharma (i Percorsi della Virtù), della Creazione, e stabilirà un Regno di rettitudine. La spada è interpretata come simbolo del “discernimento”, o della Saggezza, che tagliando dall’anima i lacci della menzogna e della sozzura, la libera alla più grande consapevolezza della verità e della bellezza.

Vishnu Purana

Uno delle prime fonti che citano il Kalki è il “Vishnu Purana”. Vishnu è il Preservatore, il Sostenitore della vita nella trinità Indù, la Bilancia dei processi della Creazione e della Distruzione. Il Kalki è citato anche nell’Agni Purana. Agni è il dio del Fuoco nel pantheon Indù, e simbolicamente rappresenta il fuoco spirituale della vita e i processi di trasformazione. È uno dei primi lavori attestanti che Gautama Budda è stato la manifestazione di Vishnu, e si avvicina concettualmente al Vishnu Purana nella descrizione del Kalki. Un testo più tardo, il Kalki Purana, che è un Purana minore, è un’esposizione estesa delle aspettative e delle predizioni di quando, dove e perché si manifesterà, e di ciò che ci si aspetta di vedere. Si tratta di una prospettiva militante autentica, celebra la sconfitta delle tradizioni che sono ritenute eretiche, le quali non aderiscono abbastanza alle tradizioni Vediche, come il Buddismo e il Jainismo. Pochi altri Purana minori lo menzionano ugualmente.

È stato teorizzato che il “Kalki Purana” sia stato scritto come risposta di molti leader Indù alle profezie Buddiste riguardanti il Kalachakra Tantra. I seguaci del Buddismo Tibetano sono i depositari del Kalachakra Tantra, e i riti di iniziazione su cui si basa sono una parte rilevante delle tradizioni Tibetane. Nel Kalachakra Tantra, il Kalki (o Kalaki, o Kulika) è il nome di almeno 25 Sovrani futuri del mistico Reame di Shambala.

Il proposito e le imprese di alcuni di questi Signori è predetta in certe sezioni di quest’opera. Ad esempio, il 25mo Kalki è stato identificato in Maitreya Budda, il quale diffonderà una cultura mondiale.

Le interpretazioni simboliche e metaforiche del Kalachakra Buddista, di Shambala e del Bodhisattva valgono quanto le profezie Indù, poiché le interpretazioni delle leggende del Kalki non riflettono un punto di vista personale. L’interpretazione del Kalki è innanzitutto un simbolo, un archetipo, di ciò che può manifestarsi in qualsiasi persona, sia essa un uomo, una donna, o un bambino.

Il Kalki è la designazione di riposo spirituale e di vigore, è la meravigliosa essenza di vita, che stimola l’uomo a seguire differenti percorsi armoniosi e virtuosi, piuttosto che percorsi inutili, discordanti e distruttivi come il fanatismo. Per coloro che abbracciano questo punto di vista, il termine Kalki si riferisce ad un atteggiamento, o ad una qualità di consapevolezza che si manifesterà nell’illuminazione percepita oltre Maya (le apparenze dello Spazio e del Tempo) e nell’Eternità in maniera razionale e mistica. È il livello di Consapevolezza che distrugge nel proprio interno le vie non caritatevoli, cioè il fanatismo che li condurrebbe ad opprimere ingiustamente gli altri, limitandoli.

Secondo questa interpretazione chi è sufficientemente illuminato per seguire il sentiero dell’ultima onestà e dell’ultimo amore, può essere dichiarato l’onorevole manifestazione di Vishnu, il Preservatore della Vita, e Kalki, il Distruttore del Sudiciume. Nessuno può dichiarsi l’ultima manifestazione o l’ultimo insegnante. Tra le confusioni peggiori che affliggono la mente dell’uomo e dell’anima, vi è quella di ritenere che solo la propria visione sia la più perfetta, e che tutte le altre debbano essere disprezzate, evitate e vilipese. Questa è la confusione più pericolosa che affligge coloro che sono spiritualmente deboli, ignoranti, codardi e vani.

Qualsiasi persona caritatevole che cavalca i bianchi cavalli del destino brandendo la spada dell’onestà può diventare un Kalki. Ogni persona può essere considerata un potenziale Signore dello spirito, un universo connesso all’umanità, agli eventi, alle idee e alle anime, affermando imperativamente il rispetto altrui. L’uomo può divenire prima un distruttore del suo sudiciume interiore e poi un assistente per gli altri.

Il Kali Yuga

Il Kali Yuga può iniziare in noi stessi e finire all’interno del prossimo, non essendo quantificabile il tempo della permanenza. Un Satya Yuga (Età dell’Oro) di saggezza si produrrà all’interno delle loro vite, appagandoli ed abilitandoli alla diffusione della cultura dell’anima.

Il Kalki sul cavallo bianco e con la spada può essere variamente interpretato. Alcuni Teosofi hanno intravisto il Kalki nella seconda venuta di Gesù in base ai seguenti passi del Vangelo:

“Poi vidi il cielo aperto, ed ecco apparire un cavallo bianco. Colui che lo cavalcava si chiama Fedele e Veritiero; perché giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi erano una fiamma di fuoco, sul suo capo vi erano molti diademi e portava scritto un nome che nessuno conosce fuorché lui. Era vestito di una veste tinta di sangue e il suo nome è la Parola di Dio. Gli eserciti che sono nel cielo lo seguivano sopra cavalli bianchi, ed erano vestiti di lino fino bianco e puro. Dalla bocca gli usciva una spada affilata per colpire le nazioni; ed egli le governerà con una verga di ferro, e pigerà il tino del vino dell’ira ardente del Dio onnipotente.” (Apocalisse, 19:11-16) Altri passi si ritrovano nell’Apocalisse 6.

Savitri Devi Mukherji

Savitri Devi Mukherji credette che le profezie del Kalki si riferissero a Hitler e lo considerò un Avatar di Vishnu. Esiste attualmente in Argentina un gruppo neo-nazista che opera sotto il nome di “Kalki Rosso”, e altri gruppi hanno incorporato il concetto del Kalki nei loro miti. Un gruppo musicale denominato “Current 93” ha composto una canzone dal titolo “Hitler come Kalki”.

Un’altra interpretazione suggerisce che il Kalki Avatar apparve in India al tempo della Seconda guerra mondiale, come guida principale dell’India, pronta a combattere gli Inglesi per realizzare un Reich della durata di mille anni. La conclusione fu che Gandhi venne considerato la manifestazione alternativa del Kalki Avatar, una misericordia divina.

Gore Vidal

Gore Vidal, conosciuto come il Messia per il cinismo espresso in alcuni dei suoi romanzi, scrisse delle satire deprimenti sulla società moderna intitolate “Kalki” (1978). In questo lavoro le motivazioni umane degenererebbero nell’indifferenza, nella delusione, nell’inganno e nella gelosia.

Alcuni scrittori musulmani hanno asserito che Muhammad, la pace sia su di Lui, adempì a molte predizioni riguardanti il Kalki. Altri hanno intravisto il Kalki nella figura dell’Imam Mahdi, la pace sia su di Lui.

La maggior parte delle interpretazioni del Kalki sono veramente ridicole, e in India ci sono centinaia di persone detenute nelle prigioni che si dichiarano esserne l’Incarnazione.

Shambala

Detto questo, il senso del regno Buddista di Shambala simboleggia la regione più profonda del nostro essere, quell’ambito interiore che è la vera fonte di tutta la saggezza, il mistero e la purezza di cui possiamo godere nella nostra vita. In realtà, come propongono gli insegnamenti del Buddismo Tantrico, dovremmo cercare di trasformare il nostro essere nel meraviglioso regno di Shambala.

Ma Shambala ha soprattutto una valenza universale. I dodici membri del cerchio interno di Shambala, dal punto di vista dell’ordine cosmico, non rappresentano soltanto i dodici segni dello zodiaco, ma anche i dodici Imam dello Sciismo Islamico, che sono altrettante forme del Sole, in rapporto con quegli stessi segni zodiacali. Tale struttura si trova riprodotta nel cosiddetto consiglio circolare del Dalai Lama, costituito dai dodici grandi Namshan o Nomekhan. Bisogna anche notare che il Leone, animale solare, è un emblema della giustizia e della potenza insieme; il segno del Leone, nello Zodiaco, è il domicilio proprio del Sole. E, l’Imam Ali, è chiamato proprio il Leone di Allah, Asadu-Allah, la pace sia su di Lui.

Baltiyul Sharba Lasgul (Azione Giovanile Baltistan) alza la bandiera a Karachi a metà degli anni 80. Lunga vita all'Unità del Ladakh-Baltistan.

Note

  1. Tibet News Italia, Inverno 2005-2006
  2. Alexander Berzin, Historical Sketch of the Muslims of Tibet, October 26, 2001.
  3. Bo, Chen. “A Multicultural Interpretation of an Ethnic Muslim Minority: The Case of the Hui Tibetan in Lhasa.” Journal of Muslim Minority Affairs 23.1 (April 2003): 41-61.
  4. Tibetan Bulletin, October-December 1998.
  5. Daily Kashmir Observer, Srinagar, Kashmir, India.
  6. Pio Filippani Ronconi, Ummu-l-Kitab, Istituto Universitario Orientale di Napoli, 1966.
  7. Michael Walter, Jabir, the Buddist yogi, Journal of Indian Philosophy, 1992 e 1996, Department of Central Eurasian Studies, Indiana University, USA.
  8. Seyyed Hossein Nasr, Scienza e civiltà nell’Islam, Feltrinelli Editore, pag 211
  9. Farhad Daftary, Encyclopaedia Iranica, edited by Ehsan Yarshater, New York, 1993, The Institute of Ismaili Studies.

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