Una risposta sul trenta e il digiuno nell’Ummu’l-Kitab

“Il punto è il logos di ‘Ali (nuqta, nuqt-i ‘Ali) ed è lo spirito di Luce che sovrasta le trenta lettere” (Ummu’l-Kitab, Introduzione, pag. 7)

Filippani Ronconi nella nota cita l’erotismo mistico di Abhinavagupta per far corrispondere le trenta lettere di luce dell’Ummu’l Kitab alle matrkah tantriche dei vari sistemi scivaiti e buddhisti mahayana.

Abhinavagupta elabora una teologia scivaita incentrata principalmente sul misticismo Kaula nel suo Paratrimsikavivarana (Commento dei trenta versi sul Supremo). Tuttavia, Abhinavagupta che era uno yogi kashmiro e un esegeta tantrico rifiuta questo titolo perché in realtà i versi sono più di trenta e preferisce il titolo Paratriika (“La Dea Suprema dei Tre”).1 Pertanto, l’origine delle trenta lettere di luce è da ricercarsi altrove.

La scoperta delle “trenta lettere di luce” in Mesopotamia e in Egitto

Cyrus H. Gordon (1908 – 2001), un archeologo statunitense esperto delle culture antiche mediorientali e dell’egeo, ha notato una correlazione tra l’alfabeto ugaritico di trenta lettere e lo zodiaco lunare di trenta giorni.

Esistono due versioni dell’alfabeto ugaritico: quella di trenta lettere con una trentesima lettera “superflua” che funge da “s”2 e forma un ciclo di 29,5 giorni; e la versione più corta di ventidue lettere, che riflette lo zodiaco solare fenicio di ventidue lettere. Gordon, ipotizzò, inoltre, che questo alfabeto di trenta lettere e la sua versione più breve di ventidue lettere “a specchio” fossero collegati allo zodiaco lunare cinese e/o ai segni del calendario di ventidue lettere. Tuttavia, è sorprendente che lo zodiaco solare sia contenuto nello zodiaco lunare e in quelle trenta lettere.

L’idea della consonante come contenitore/corpo della vocale/luce/comprensione del Dio interiore nell’alfabeto ugaritico si ritrova nelle sue trenta lettere, le quali simboleggiano i giorni della luna, cioè un contenitore di luce contenente le ventidue lettere dello zodiaco solare3.

Le “trenta stazioni lunari” nell’Ummu’l Kitab, Questione XXIII

Pertanto, le trenta lettere dell’alfabeto ugaritico che simboleggiano i giorni della luna si trovano nel seguente passaggio: “In corrispondenza delle trenta stazioni lunari (si manazil-i mah) vi sono i 30 denti4” (Ummu’l Kitab, Questione XXIII, pag. 169)

Le “trenta lettere” nella Questione XXX

Giabir disse: “O mio Signore, qual è il significato del digiuno canonico? Baqir rispose: “Come bisogna che lo spirito si mantenga digiuno per trenta giorni, così pure questi [giorni] sono le trenta lettere [a riguardo delle quali] bisogna porre il sigillo sulle labbra.

Lungo [ogni ciclo di] trent’anni, il digiuno occupa [successivamente] i dodici mesi: quelli sono le trenta lettere di luce, alle quali si riconoscono dodici membra” (Questione XXX, pag. 199-200).

Significa che chi compie il Ramadan per trent’anni avrà compiuto il ciclo completo dei dodici mesi lunari (354 o 355 giorni l’anno) digiunando in tutte le stagioni, comprese quelle che rendono il digiuno difficile e quelle che rendono il digiuno facile.

I “trenta Ajza’”del Corano e il digiuno

Il Juz’ è una delle trenta parti o Ajza’ (singolare Juz’) del Corano. La divisione in trenta parti combacia con i giorni di digiuno del Ramadan. Queste “trenta lettere [a riguardo delle quali] bisogna porre il sigillo sulle labbra” nella Questione XXX dell’Ummu’l-Kitab sono, pertanto, i trenta Ajza’ del Corano che bisogna leggere nel mese di Ramadan.

Il “trenta” ispira la nascita del Si-Harfi

Il Si-Harfi (letteralmente trenta lettere) è un poema acrostico, la cui prima lettera (o sillaba, o parola) di ogni riga (o paragrafo, o altro elemento ricorrente nel testo) scandisce una parola o un messaggio di contenuto mistico. Si tratta di una raccolta di poesie brevi che divennero popolari tra i sufi del Punjab.

Il Si-Harfi (Le trenta lettere) è composto di trenta strofe, ciascuna delle quali inizia con una delle trenta lettere dell’alfabeto punjabi (shahmukhi)5, ma questa modalità utilizza le lettere dell’alfabeto arabo che si ispirano al contesto letterario musulmano. Le composizioni usano, per la maggior parte, una forma tradizionale chiamata pada (stanza).

Le lettere dell’alfabeto sono prese in successione e le parole di cui formano le iniziali sono utilizzate per dare l’espressione metrica alle idee del poeta. Il Si-Harfi (Le trenta lettere) è composto per lo più per elogiare la divinità, ma anche per trasmettere una leggenda, una storia o un racconto.

Tra i Si-Harfi divenuti proverbiali spicca il verso di Sultan Bahu (morto nel 1692) sulla lettera alif: “Dio è un cespuglio di gelsomino”.

Bulleh Shah ha anche composto il Baran Maha (I dodici mesi) e un Si-Harfi.

Rozah Nama, le “trenta lettere” e il digiuno

Qadir Yar scritto in Shahmukhi e in Gurmukhi

Il Rozah Nama (Epistola sul digiuno) è un Si-Harfi (Le trenta lettere) che fu scritto da Qadir Yar (1802–1892), un musulmano del Punjab che ispirandosi al trenta e al dodici commenta la Questione XXX dell’Ummu’l Kitab accennando alle difficoltà che accompagnano i digiuni religiosi. Enumerando i 30 Rozah (giorni di digiuno), il poeta descrive lo stato fisico e mentale di una persona in ogni giorno di digiuno. Allo stesso modo dei dodici mesi (Baran Maha), l’enfasi è sempre posta sul dolore che separa il digiunante dal Signore.

Poi arrivò il tredicesimo Rozah
Il mio cuore ha cominciato ad affondare.
Il mio corpo era ancora più emaciato
La mia vita cominciava a svanire.
O Qadir! Sono estremamente indisposto
In questo periodo crudele di metà giornata.

Il suo poema sembra essere stato composto molto tempo dopo il Mehraj Nama, poiché in esso vi sono prove sufficienti della maturità poetica di Qadir yar. Il poema raffigura il desiderio dell’amato per l’amante. L’unione è possibile solo alla fine del mese di rigore (digiuno) religioso. Il desiderio dell’amante si traduce in notti insonni:

Il sonno mi ha abbandonato.
Quando mi alzo al mattino,
Il mio cuore è pesante.
In chi posso rifugiarmi, O Qadir?
Quando la legge del mio amico Mohammad
Si mette in mezzo?

Il poeta paragona la sua condizione emaciata a quella di un albero secco che può ritrovare la sua gloria originaria solo quando viene innaffiato dalla pietà e dalla bontà. Finalmente arriva il momento in cui il poeta si sente esultante: “Rab yar milaya raat nun” (Il Signore mi ha unito alla mia amante la notte scorsa). La consumazione ha sfumature erotiche, ma il messaggio divino è inconfondibile.

Oggi
Mi adorno di gioielli
Il mio amante mi ha preso nel suo abbraccio.
Tutti i miei desideri sono stati esauditi,
Ora è il momento di dire le mie preghiere dell’Aid.

Lo yoga nel Si Harfi (“Le trenta lettere”) di Sayed Ahmed Shah

Sayed Ahmed Shah era un musulmano che visse nel 16° secolo e compose un Si-Harfi (Le trenta lettere) sul modello del pensiero sciita ismailita del tempo impostato sulla meditazione e sul sistema dello yoga. È un’epistola dal sapore mistico e spirituale. Utilizza le lingue vernacolari e straniere per raffigurare il messaggio esoterico dell’Islam nell’ottica ismailita.

Strutturalmente, il Si-Harfi (Le trenta lettere) di Sayed Ahmed Shah è composto di 8 poesie per un totale di 120 versi. Ognuna delle 8 poesie contiene 5 distici (doha) di 10 versi, un ritornello (re tunhi) di un verso e termina con una quartina (chaupai) di 4 versi (in totale 15 versi per ogni poesia).

https://ismaili.net/ginans/seeharfi/seeharfiindex.html (Il Si-Harfi di Sayed Ahmed Shah)

Alcuni versi di yoga del Si-Harfi (Le trenta lettere) di Sayed Ahmed Shah

“Quando il respiro esteriore (sohang) è permeato di divinità (Brahma), è uno stato di verità, coscienza e gioia (cioè è lo stato di felicità dell’anima). Il mistero del nome divino è tale da essere onnipervasivo (onnipresente)”. Parte 1, verso 1.

“A ogni respiro compie il ricordo e cancella gli effetti dei peccati degli ottantaquattro cicli (ciclo lakh)”. Parte 3, verso 4.

“(daal8a lettera). Cerca la decima porta (il punto di contatto tra anima e corpo), O fratello e alla fonte della porta, focalizza la tua attenzione.” Parte 3, verso 5.

(re10a lettera). “Quando si è pienamente abili nella postura meditativa, si è considerati come uno stalliere (un servitore nella casa reale), ma quando si raggiunge l’amore, ci si siede sul trono. Quando uno raggiunge senza sforzo la concentrazione sulla regione della fronte tra i due occhi, è considerato un eroe che ha raggiunto la meta finale”. Parte 3, versi 9-10.

(ze – 11a lettera) “Colui che senza esercitare forza, mantiene la verità (o il ricordo), porta il fiume Sarasvati tra il Gange e lo Yamuna (creando così il luogo di pellegrinaggio, il ‘teerath’ l’incontro dei tre fiumi).

[I fiumi sono i simbolici tre canali immaginari cioè ingla (ida), pingla (pingala) e sukhamana (sushumna). Il loro incontro genera l’illuminazione interiore, vale a dire la realizzazione del pellegrinaggio spirituale]”. Parte 4, versi 1-2

(sin – 12a lettera) “Quando il canale di forza sukhamana (sushumna) vibra all’interno del corpo, nell’universo vengono generati suoni illimitati”.

Quando la dimora (corpo di una persona) è piena di nettare illimitato (flusso continuo di nettare divino), allora anche le anime devote come il leggendario Gorakh prestano servizio a tale persona”. Parte 4, versi 3-4

(shin – 13a lettera) Quindi, un tale coraggioso non ha alcun lavoro da svolgere, poiché i canali immaginari di ingla (ida) e pingla (pingala) pronunciano il nome divino, cioè la recitazione mediante l’uso della lingua è resa inutile. Parte 4, verso 5

Le “trenta lettere” dell’Ummu’l-Kitab e gli abdal

Gli abdal (in arabo “sostituti”) è un termine usato nella metafisica islamica sunnita e sciita per indicare un importante gruppo di santi di Dio.

Nel “Musnad” dell’Imam Ahmad ibn Hanbal è detto: “I sostituti (abdal) in questa Nazione sono trenta uomini. Ogni volta che uno muore, Dio mette un altro al suo posto»

L’Imam Gia’far al-Sadiq ha dichiarato che gli abdal sono “trenta credenti che il Mahdi incontra durante la sua assenza. Ogni volta che uno di loro muore, Dio lo sostituisce con un altro, e per questo sono chiamati abdal”.

Le “trenta lettere di luce” dell’Ummu’l-Kitab sono come il Simurgh

Simurgh (trenta uccelli) è la parola in codice che significa lo sviluppo della mente attraverso la “Cina”; “Cina” sta, sia in persiano che in arabo, per il concetto nascosto di meditazione e metodologia sufica (Idries Shah, I sufi)6. Le “trenta lettere di luce” dell’Umm’l Kitab al pari del Simurgh indicano la via, simboleggiano gli obiettivi interiori da conseguire: la guarigione, la vita, la rinascita, la divinità e la sapienza.

Note

  1. Abhinavagupta Para Trishika Vivarana The Secret Of Tantric Mysticism Jaideva Singh.
  2. La lettera ugaritico “s” presenta un doppio segno d’acqua che ricorda gli stessi doppi segni d’acqua delle divinità Enki/Hapi simboleggianti l’acquario in Mesopotamia e in Egitto. Questo suono “s” è equiparabile al glifo “s” del segno dell’acquario egiziano. La “s” ugaritica simboleggia la bilancia e potrebbe essere l’altra “s” che forma i due glifi “s” dell’acquario egiziano.
  3. Brian R. Pellar, The Foundation of Myth, pag. 154.
  4. Il simbolismo delle vocali che venivano tagliate dai denti e che rimangono nel grembo della consonante, come il sole all’interno delle costellazioni/lettere dell’astro-alfabeto sono presenti nelle parole del pitagorico Nicomaco di Gerasa. Brian R. Pellar, The Foundation of Myth, pag. 156-157
  5. Le ventotto lettere dell’alfabeto arabo sono composte fino a trenta dall’aggiunta di un secondo alif e di un secondo lam, che insieme formano il caratteristico digrafo lam-alif.
  6. Idries Shah, I sufi, pag. 350.

Bibliografia

P. Filippani-Ronconi, Ummu’l-kitab, Irfan, 2016.

Brian R. Pellar, On the Origins of the Alphabet, 2009.

Brian R. Pellar, The Foundation of Myth: A Unified Theory of the Link Between Seasonal/Celestial Cycles, the Precession, Theology, and the Alphabet/Zodiac, part II, 2016.

Idries Shah, I sufi, pag. 350.

Bullhe Shah, Sufi Lyrics.

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